a cura di Gabriele Paganelli
Responsabile Area Famiglia e Educazione
Responsabile Area Famiglia e Educazione
L’incontro del Meeting del 27/08/2010 Quale politica per la famiglia? Le prospettive del welfare locale, dove sono state messe a tema le politiche per la famiglia quali vere priorità, ha visto il confronto di esponenti del mondo associativo, accademico e politico. Hanno infatti partecipato: Gianni Alemanno, sindaco di Roma; Francesco Belletti, presidente del Forum delle associazioni familiari; Roberto Cota, presidente della Regione Piemonte; Luca Pesenti, ricercatore di Sociologia generale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Caterina Tartaglione, presidente del Sindacato delle famiglie; Pietro Vignali, sindaco di Parma. Ha introdotto Monica Poletto, presidente CdO-Opere sociali.
L’incontro è cominciato con la domanda di carattere introduttivo di Monica Poletto, domanda che ha permesso da un lato di sottolineare come la famiglia non sia una scelta scontata da parte della politica dalla quale ancora non riceve un’adeguata attenzione, ma dall’altro lato anche di ricordare che il cuore dell’uomo ha bisogno di una dimora, di un luogo di rapporti e la famiglia è il primo e insostituibile luogo di costruzione dell’umano, capace di determinare il volto dell’intera società.
Era cosa nota che l’Italia spendesse poco per la famiglia e la maternità ed è proprio di questi giorni la conferma ufficiale arrivata dal ministero dell’Economia. Per queste voci basilari, l’Italia, fanalino di coda nell’Unione europea, assieme a Spagna e Portogallo, è tra i Paesi che investono meno risorse per la tutela della maternità e per la famiglia: nel 2009 ha destinato non più dell’1,4% (cioè sui 22-23 miliardi di euro) del Prodotto interno lordo, un dato assai distante non solo dalle punte avanzate del 3,7% della Danimarca o del 3% della Svezia, ma perfino dalla media europea del 2,1%. La distanza non è solo rispetto ai Paesi scandinavi, che hanno una tradizione di Welfare “forte”: l’Italia spende in ogni caso la metà della Germania e dell’Austria (2,8%) o della Francia (2,5%). Solo Regno Unito e Grecia, con l’1,5% impiegato, veleggiano non troppo distanti dalla spesa italiana.
Dopo questi primi cenni descrittivi della situazione attuale, il microfono è passato a Caterina Tartaglione che ha iniziato la sua relazione proponendo tre punti: l’urgenza di attuare politiche per rivitalizzare la famiglia, la necessità di una politica di investimento e, alla fine, obiettivi e proposte del sindacato. Una politica della famiglia è quanto mai necessaria, perché la famiglia è a pieno titolo un soggetto sociale: la prima fonte di crescita, educazione, cura e accoglienza della persona umana. E’ ben visibile il deserto nel quale sono state abbandonate la famiglia e la promozione della maternità. Quel che resiste, resiste per una cultura diffusa e purtroppo sempre più insediata da martellanti campagne disgregatrici. Prima ancora che colmare la distanza con le altre nazioni europee, la sfida è tutta interna: fermare il nostro declino e una tendenza alla denatalità che fa nascere in Italia appena 1,3 bambini per donna contro i 2,1 necessari ad assicurare il ricambio naturale. E ancora, fermare il progressivo impoverimento dei nuclei familiari con figli, rimuovere quegli ostacoli materiali che frenano le giovani coppie dal procreare, che condizionano di fatto la scelta di mettere al mondo quanti figli si desiderano. Il gap è innanzitutto con noi stessi, non siamo adeguati alle nostre necessità più profonde ed infatti la crisi, che nell’ultimo anno e mezzo ha colpito le società occidentali obbligando i decision maker dei vari Paesi coinvolti a ripensare i meccanismi che regolano i sistemi economico-finanziari, deve essere letta non solo come esito di tecniche contabili usate in maniera errata o fraudolenta, ma come espressione di una concezione ridotta di uomo e di lavoro. Un uomo che non si sente più spinto a “desiderare cose grandi”: si è persa l’idea che la capacità creativa, di trasformazione della realtà, il desiderio di costruire, di migliorare la condizione personale, familiare e del territorio, sono radicati nella natura umana. E si è persa l’idea che, contrariamente a quanto sostiene una certa letteratura socio-economica, la disposizione a “intraprendere” è direttamente proporzionale a quanto un uomo vive la sua natura profonda, fatta di desiderio di giustizia, verità, bellezza e a quanto questo desiderio è educato nelle realtà sociali, territoriali, ideali, a cui la persona appartiene. Il recupero di questa dimensione, insieme alla riscoperta della dimensione fondamentalmente relazionale dell’essere umano, è la grande opportunità che la crisi sta offrendo in questo momento, insieme all’affronto di alcuni problemi di ordine sociale che essa ha acuito e che riguardano in particolare le fasce della popolazione più vulnerabili.
Considerando la famiglia come un soggetto sociale e relazionale, deriva pertanto che le amministrazioni, debbano puntare su un welfare relazionale, su un fisco a misura di famiglia. Un soggetto decisivo per la vita sociale ed economica della nostra nazione che – sostiene il presidente del Sindacato delle famiglie – pure non ha mai trovato un’adeguata attenzione, se non una piccola apertura nel recente libro bianco del ministro Maurizio Sacconi. Una politica seria per la famiglia, deve quindi pensare a investimenti sul lungo termine, non a interventi una tantum sulla necessità, per non far diventare un lusso avere un figlio, mandarlo in una scuola paritaria oppure curare un proprio parente in casa. Caterina Tartaglione cita poi alcuni esempi positivi del lavoro fatto dal Sindacato: in regione Lombardia la collaborazione nella stesura della legge 23/99, la più avanzata in Italia; a Catania la fornitura di generi alimentari; a Varese l’integrazione tra donne italiane e immigrate; a Reggio Emilia in collaborazione con il provveditorato un percorso di aiuto alla genitorialità; a Milano il sostegno a bambini dislessici, a Pesaro uno sportello famiglia. Due le proposte concrete che Caterina Tartaglione ha presentato: un nuovo sistema fiscale, con deduzioni sostanziose per i figli e la conciliazione dei tempi famiglia e lavoro con una flessibilità a misura di famiglia.
Un’altra rilevante esperienza è riportata da Francesco Belletti che incomincia con il sottolineare come la famiglia sia il luogo della libertà e della socialità pubblica che nasce dalla scelta di un uomo e di una donna di stare insieme per sempre in tutto. Fare famiglia è quindi un’attività pubblica, socialmente rilevante. Date queste premesse, si comprende che la famiglia sia una risorsa per lo sviluppo della nazione, e tocca quindi alla famiglia stessa farsi sentire e non subire in silenzio, ma acquisire spazi significativi di cittadinanza politica.
“Che cosa bisogna attendersi dalla politica in questo momento di fragilità della famiglia?”, è la domanda che proviene dal mondo accademico. Secondo il sociologo Luca Pesenti, la politica dovrebbe avere cura del benessere della famiglia anche soltanto per motivi meramente utilitaristici, perché la fine di una famiglia ha costi decisamente alti sia economici - molti padri separati sono i nuovi poveri – sia sui figli che più facilmente incontrano difficoltà scolastiche, dipendenze da droghe, criminalità. Oggi, fa notare Pesenti, può diventare povero chi ha in casa un malato cronico da curare; chi perde il lavoro a 50 anni per una improvvisa crisi aziendale; chi, senza una pensione adeguata, si ritrova anziano senza parenti che lo sostengono; chi si trova ad affrontare separazioni matrimoniali e non riesce a mantenersi da solo. Così, la questione cruciale nella lotta alla povertà è l’educazione del povero a ricostruire dei legami, a prendere iniziativa verso la propria condizione. Occorre allora un ripensamento sulle politiche familiari (“non i bambini subito all’asilo nido e gli anziani nelle residenze protette”), ma un “personal budget” (per esempio istituito nel comune di Magenta) che la famiglia possa spendere come vuole. Nella legge di riforma delle politiche sociali che la Regione Lombardia ha emanato all’inizio dello scorso anno c’è un’idea rivoluzionaria, tutta da sviluppare nelle sue concrete potenzialità: quella della famiglia come “unità di offerta”. La famiglia offre al proprio interno servizi di cura, per i propri membri (i figli e gli anziani, per l’appunto) e spesso anche per altri, come accade nel caso dell’affido, dell’adozione o delle tagesmutter. L’idea prefigurata dalla legge lombarda sembra fatta apposta per cogliere proprio questa potenzialità, rivoluzionando il sistema di welfare italiano in senso radicalmente sussidiario. Pensare alla famiglia come a una “unità di offerta” potrebbe infatti significare mettere sullo stesso piano i servizi offerti da soggetti privati (profit e nonprofit) con quelli offerti dalle famiglie. E soprattutto permettere alle famiglie che lo desiderano di scegliere realmente tra l’una e l’altra opzione. Invece di finanziare, direttamente o indirettamente, solamente i servizi cui solitamente le famiglie si rivolgono per avere aiuto (dovendo per altro sempre sobbarcarsi una parte consistente della retta complessiva), sarebbe possibile sperimentare forme di finanziamento diretto alle famiglie, sotto forma di buoni o di voucher. Lasciando a loro uno spazio di responsabilità (e dunque di scelta) ancora più ampia. Se così fosse potremmo scoprire ad esempio che in molti casi la scelta di mettere un anziano in una RSA (le vecchie case di riposo) è un ripiego dettato da esigenze economiche, perché tenere l’anziano in casa, con una o più badanti a disposizione oltre alle spese di vitto e alloggio, costerebbe molto di più. E che basterebbe un sostegno economico, anche più contenuto di quel che mediamente una Regione spende per cofinanziare un posto letto, per lasciare l’anziano in casa sua fin quando possibile. Un’idea nuova è nella legge di riforma delle politiche sociali della Regione Lombardia: l’idea che la famiglia sia un’“unità di offerta”. Ecco costituirsi per la famiglia lo spazio della già citata partecipazione politica: la povertà e tutti i bisogni sociali sono più efficacemente affrontati con azioni “dal basso”, cioè dai soggetti naturalmente più vicini al bisogno e più in grado di accompagnare l’azione delle persone perché diventino protagoniste di un possibile cambiamento del loro destino. La politica deve dare allora per Pesenti quello spazio che restituisca alla famiglia le grandi funzioni che già svolge e così conservi il significato della propria esistenza.
A questo punto, la parola passa ai politici. Roberto Cota, presidente leghista del Piemonte, rivendica la svolta che si è avuta nella sua regione con il rifinanziamento del buono scuola. Ma innanzitutto, per Cota, bisogna mettersi d’accordo sul concetto di famiglia, che è quella della Costituzione, fondata sul matrimonio. E, dopo aver ricordato che il quoziente familiare è inserito nella legge delega sul federalismo fiscale, ci mette del pragmatismo, annunciando che il Piemonte «pagherà i pannolini con il servizio sanitario. Ci costerà circa 10-15 milioni, più o meno la metà - attacca - di quanto la precedente giunta ha stanziato per pagare la parcella della nuova sede regionale all’architetto Fuksas».
E’ poi il turno del precursore del «quoziente modello famiglia», il sindaco di Parma Pietro Vignali: «Applicando il nostro "quoziente" andiamo in controtendenza. Abbiamo creato l’agenzia per la famiglia innescando un percorso virtuoso che considera la famiglia, non come cliente, ma come fornitore di servizi». Lui con la sua Giunta due anni fa ha introdotto il quoziente familiare, divenendo famoso in tutta Italia. «Abbiamo rivoluzionato il sistema di welfare – racconta – aprendo l’Agenzia per la Famiglia, poi detassando l’Irpef e infine rimodulando l’Isee tenendo conto non solo delle situazioni reddituali e patrimoniali delle famiglie, ma anche del numero di figli e della presenza di disabili o anziani». Tanto che a seguirlo a ruota s’è messo pure Gianni Alemanno, sindaco di Roma che ribadisce che si può fare anche a costo zero, perché si tratta di redistribuire risorse in modo più equo, prima ancora che di trovarle. Anzi - conclude Alemanno - una svolta in senso sussidiario della gestione delle risorse provoca risparmi, ricordando come un posto in asilo costi, a Roma, 13mila euro a bambino nelle strutture pubbliche e solo 7mila nelle strutture del privato sociale.
L’incontro è cominciato con la domanda di carattere introduttivo di Monica Poletto, domanda che ha permesso da un lato di sottolineare come la famiglia non sia una scelta scontata da parte della politica dalla quale ancora non riceve un’adeguata attenzione, ma dall’altro lato anche di ricordare che il cuore dell’uomo ha bisogno di una dimora, di un luogo di rapporti e la famiglia è il primo e insostituibile luogo di costruzione dell’umano, capace di determinare il volto dell’intera società.
Era cosa nota che l’Italia spendesse poco per la famiglia e la maternità ed è proprio di questi giorni la conferma ufficiale arrivata dal ministero dell’Economia. Per queste voci basilari, l’Italia, fanalino di coda nell’Unione europea, assieme a Spagna e Portogallo, è tra i Paesi che investono meno risorse per la tutela della maternità e per la famiglia: nel 2009 ha destinato non più dell’1,4% (cioè sui 22-23 miliardi di euro) del Prodotto interno lordo, un dato assai distante non solo dalle punte avanzate del 3,7% della Danimarca o del 3% della Svezia, ma perfino dalla media europea del 2,1%. La distanza non è solo rispetto ai Paesi scandinavi, che hanno una tradizione di Welfare “forte”: l’Italia spende in ogni caso la metà della Germania e dell’Austria (2,8%) o della Francia (2,5%). Solo Regno Unito e Grecia, con l’1,5% impiegato, veleggiano non troppo distanti dalla spesa italiana.
Dopo questi primi cenni descrittivi della situazione attuale, il microfono è passato a Caterina Tartaglione che ha iniziato la sua relazione proponendo tre punti: l’urgenza di attuare politiche per rivitalizzare la famiglia, la necessità di una politica di investimento e, alla fine, obiettivi e proposte del sindacato. Una politica della famiglia è quanto mai necessaria, perché la famiglia è a pieno titolo un soggetto sociale: la prima fonte di crescita, educazione, cura e accoglienza della persona umana. E’ ben visibile il deserto nel quale sono state abbandonate la famiglia e la promozione della maternità. Quel che resiste, resiste per una cultura diffusa e purtroppo sempre più insediata da martellanti campagne disgregatrici. Prima ancora che colmare la distanza con le altre nazioni europee, la sfida è tutta interna: fermare il nostro declino e una tendenza alla denatalità che fa nascere in Italia appena 1,3 bambini per donna contro i 2,1 necessari ad assicurare il ricambio naturale. E ancora, fermare il progressivo impoverimento dei nuclei familiari con figli, rimuovere quegli ostacoli materiali che frenano le giovani coppie dal procreare, che condizionano di fatto la scelta di mettere al mondo quanti figli si desiderano. Il gap è innanzitutto con noi stessi, non siamo adeguati alle nostre necessità più profonde ed infatti la crisi, che nell’ultimo anno e mezzo ha colpito le società occidentali obbligando i decision maker dei vari Paesi coinvolti a ripensare i meccanismi che regolano i sistemi economico-finanziari, deve essere letta non solo come esito di tecniche contabili usate in maniera errata o fraudolenta, ma come espressione di una concezione ridotta di uomo e di lavoro. Un uomo che non si sente più spinto a “desiderare cose grandi”: si è persa l’idea che la capacità creativa, di trasformazione della realtà, il desiderio di costruire, di migliorare la condizione personale, familiare e del territorio, sono radicati nella natura umana. E si è persa l’idea che, contrariamente a quanto sostiene una certa letteratura socio-economica, la disposizione a “intraprendere” è direttamente proporzionale a quanto un uomo vive la sua natura profonda, fatta di desiderio di giustizia, verità, bellezza e a quanto questo desiderio è educato nelle realtà sociali, territoriali, ideali, a cui la persona appartiene. Il recupero di questa dimensione, insieme alla riscoperta della dimensione fondamentalmente relazionale dell’essere umano, è la grande opportunità che la crisi sta offrendo in questo momento, insieme all’affronto di alcuni problemi di ordine sociale che essa ha acuito e che riguardano in particolare le fasce della popolazione più vulnerabili.
Considerando la famiglia come un soggetto sociale e relazionale, deriva pertanto che le amministrazioni, debbano puntare su un welfare relazionale, su un fisco a misura di famiglia. Un soggetto decisivo per la vita sociale ed economica della nostra nazione che – sostiene il presidente del Sindacato delle famiglie – pure non ha mai trovato un’adeguata attenzione, se non una piccola apertura nel recente libro bianco del ministro Maurizio Sacconi. Una politica seria per la famiglia, deve quindi pensare a investimenti sul lungo termine, non a interventi una tantum sulla necessità, per non far diventare un lusso avere un figlio, mandarlo in una scuola paritaria oppure curare un proprio parente in casa. Caterina Tartaglione cita poi alcuni esempi positivi del lavoro fatto dal Sindacato: in regione Lombardia la collaborazione nella stesura della legge 23/99, la più avanzata in Italia; a Catania la fornitura di generi alimentari; a Varese l’integrazione tra donne italiane e immigrate; a Reggio Emilia in collaborazione con il provveditorato un percorso di aiuto alla genitorialità; a Milano il sostegno a bambini dislessici, a Pesaro uno sportello famiglia. Due le proposte concrete che Caterina Tartaglione ha presentato: un nuovo sistema fiscale, con deduzioni sostanziose per i figli e la conciliazione dei tempi famiglia e lavoro con una flessibilità a misura di famiglia.
Un’altra rilevante esperienza è riportata da Francesco Belletti che incomincia con il sottolineare come la famiglia sia il luogo della libertà e della socialità pubblica che nasce dalla scelta di un uomo e di una donna di stare insieme per sempre in tutto. Fare famiglia è quindi un’attività pubblica, socialmente rilevante. Date queste premesse, si comprende che la famiglia sia una risorsa per lo sviluppo della nazione, e tocca quindi alla famiglia stessa farsi sentire e non subire in silenzio, ma acquisire spazi significativi di cittadinanza politica.
“Che cosa bisogna attendersi dalla politica in questo momento di fragilità della famiglia?”, è la domanda che proviene dal mondo accademico. Secondo il sociologo Luca Pesenti, la politica dovrebbe avere cura del benessere della famiglia anche soltanto per motivi meramente utilitaristici, perché la fine di una famiglia ha costi decisamente alti sia economici - molti padri separati sono i nuovi poveri – sia sui figli che più facilmente incontrano difficoltà scolastiche, dipendenze da droghe, criminalità. Oggi, fa notare Pesenti, può diventare povero chi ha in casa un malato cronico da curare; chi perde il lavoro a 50 anni per una improvvisa crisi aziendale; chi, senza una pensione adeguata, si ritrova anziano senza parenti che lo sostengono; chi si trova ad affrontare separazioni matrimoniali e non riesce a mantenersi da solo. Così, la questione cruciale nella lotta alla povertà è l’educazione del povero a ricostruire dei legami, a prendere iniziativa verso la propria condizione. Occorre allora un ripensamento sulle politiche familiari (“non i bambini subito all’asilo nido e gli anziani nelle residenze protette”), ma un “personal budget” (per esempio istituito nel comune di Magenta) che la famiglia possa spendere come vuole. Nella legge di riforma delle politiche sociali che la Regione Lombardia ha emanato all’inizio dello scorso anno c’è un’idea rivoluzionaria, tutta da sviluppare nelle sue concrete potenzialità: quella della famiglia come “unità di offerta”. La famiglia offre al proprio interno servizi di cura, per i propri membri (i figli e gli anziani, per l’appunto) e spesso anche per altri, come accade nel caso dell’affido, dell’adozione o delle tagesmutter. L’idea prefigurata dalla legge lombarda sembra fatta apposta per cogliere proprio questa potenzialità, rivoluzionando il sistema di welfare italiano in senso radicalmente sussidiario. Pensare alla famiglia come a una “unità di offerta” potrebbe infatti significare mettere sullo stesso piano i servizi offerti da soggetti privati (profit e nonprofit) con quelli offerti dalle famiglie. E soprattutto permettere alle famiglie che lo desiderano di scegliere realmente tra l’una e l’altra opzione. Invece di finanziare, direttamente o indirettamente, solamente i servizi cui solitamente le famiglie si rivolgono per avere aiuto (dovendo per altro sempre sobbarcarsi una parte consistente della retta complessiva), sarebbe possibile sperimentare forme di finanziamento diretto alle famiglie, sotto forma di buoni o di voucher. Lasciando a loro uno spazio di responsabilità (e dunque di scelta) ancora più ampia. Se così fosse potremmo scoprire ad esempio che in molti casi la scelta di mettere un anziano in una RSA (le vecchie case di riposo) è un ripiego dettato da esigenze economiche, perché tenere l’anziano in casa, con una o più badanti a disposizione oltre alle spese di vitto e alloggio, costerebbe molto di più. E che basterebbe un sostegno economico, anche più contenuto di quel che mediamente una Regione spende per cofinanziare un posto letto, per lasciare l’anziano in casa sua fin quando possibile. Un’idea nuova è nella legge di riforma delle politiche sociali della Regione Lombardia: l’idea che la famiglia sia un’“unità di offerta”. Ecco costituirsi per la famiglia lo spazio della già citata partecipazione politica: la povertà e tutti i bisogni sociali sono più efficacemente affrontati con azioni “dal basso”, cioè dai soggetti naturalmente più vicini al bisogno e più in grado di accompagnare l’azione delle persone perché diventino protagoniste di un possibile cambiamento del loro destino. La politica deve dare allora per Pesenti quello spazio che restituisca alla famiglia le grandi funzioni che già svolge e così conservi il significato della propria esistenza.
A questo punto, la parola passa ai politici. Roberto Cota, presidente leghista del Piemonte, rivendica la svolta che si è avuta nella sua regione con il rifinanziamento del buono scuola. Ma innanzitutto, per Cota, bisogna mettersi d’accordo sul concetto di famiglia, che è quella della Costituzione, fondata sul matrimonio. E, dopo aver ricordato che il quoziente familiare è inserito nella legge delega sul federalismo fiscale, ci mette del pragmatismo, annunciando che il Piemonte «pagherà i pannolini con il servizio sanitario. Ci costerà circa 10-15 milioni, più o meno la metà - attacca - di quanto la precedente giunta ha stanziato per pagare la parcella della nuova sede regionale all’architetto Fuksas».
E’ poi il turno del precursore del «quoziente modello famiglia», il sindaco di Parma Pietro Vignali: «Applicando il nostro "quoziente" andiamo in controtendenza. Abbiamo creato l’agenzia per la famiglia innescando un percorso virtuoso che considera la famiglia, non come cliente, ma come fornitore di servizi». Lui con la sua Giunta due anni fa ha introdotto il quoziente familiare, divenendo famoso in tutta Italia. «Abbiamo rivoluzionato il sistema di welfare – racconta – aprendo l’Agenzia per la Famiglia, poi detassando l’Irpef e infine rimodulando l’Isee tenendo conto non solo delle situazioni reddituali e patrimoniali delle famiglie, ma anche del numero di figli e della presenza di disabili o anziani». Tanto che a seguirlo a ruota s’è messo pure Gianni Alemanno, sindaco di Roma che ribadisce che si può fare anche a costo zero, perché si tratta di redistribuire risorse in modo più equo, prima ancora che di trovarle. Anzi - conclude Alemanno - una svolta in senso sussidiario della gestione delle risorse provoca risparmi, ricordando come un posto in asilo costi, a Roma, 13mila euro a bambino nelle strutture pubbliche e solo 7mila nelle strutture del privato sociale.
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