sabato 29 maggio 2010

Intervista a Carlo Pignatari

Oltre il localismo, con il territorio, sul mercato globale
Intervista al dott. Carlo Pignatari, Direttore CNA Innovazione

Riflessioni per seminario “Economie locali per lo sviluppo - Innovazione, occupazione e territorio”.

a cura di Carlo Pantaleo,
Associazione Centro Studi Nuove Generazioni

Il secondo dei seminari “Lo sviluppo locale oltre la crisi, dalla teoria alla pratica” ha come titolo Economie locali per lo sviluppo - Innovazione, occupazione e territorio”. Fra i relatori c’è il dott. Carlo Pignatari, Direttore di CNA Innovazione che collabora attivamente allo sviluppo e alla ricerca di modelli per la crescita e l’innovazione gestionale delle imprese. Esperto di pratiche avanzate di management e di strumenti di Benchmarking, svolge attività di ricerca, consulenza e progettazione per le PMI. In particolare recentemente ha studiato 50 casi di imprese emiliane-romagnole, selezionate tra quelle che hanno dimostrato eccellenti performances e che hanno fatto rete e si sono internazionalizzate.

Domande

In tempo di crisi economica diventa ancor più importante lo sviluppo locale. Quali leve muovere per innescare lo sviluppo autonomo di aree produttive territoriali fortemente specializzate, come lo sono quella riminese riguardo turismo e manifatturiero?

Senza pretendere di fornire risposte risolutive a un problema molto vasto come quello esposto nella domanda, posso provare a portare alcuni spunti che mi arrivano da anni di lavoro con le piccole imprese.
Nella mia esperienza, che parte da un punto di vista micro-economico, ho trovato decisive la capacità imprenditoriale, la voglia di rischiare in proprio, l'impegno e lo sforzo di credere in qualcosa. La prima leva secondo me, dovrebbe essere nel cercare di non soffocare questa imprenditorialità diffusa che ha costruito il tessuto produttivo italiano.
Oggi tutto questo non basta più, ma è la premessa necessaria a qualsiasi evoluzione. Riconoscere che il sistema italiano, fatto di piccole imprese di solito dotate di grandi competenze tecnico produttive e abilità nel saper fare, sia stato un modello quanto meno non peggiore di altri modelli molto più celebrati potrebbe essere una prima base da cui partire. Siamo un paese di piccole e piccolissime imprese con una forte vocazione in settori per lo più tradizionali.
D'altro lato non può essere motivo di compiacimento. I settori tradizionali devono ambire a rinnovarsi, la piccola dimensione è spesso insufficiente a competere in spazi che hanno per orizzonte un mercato mondiale.
Si potrebbe provare a partire allora dai meccanismi che hanno funzionato nei distretti quali la spinta a imitare e superare il proprio vicino che è in ogni impresa e ancor prima, in ognuno di noi. Qualcuno la ha chiamata invidia creativa e credo che sia una motivazione importante per migliorare e crescere. Questo meccanismo deve però essere liberato dal vincolo territoriale perché spesso è inutile imitare oggi il nostro vicino che ha fatto un piccolo miglioramento incrementale per scoprire che qualcuno da un'altra parte del mondo ha trovato una tecnologia radicalmente innovativa che azzera il problema di cui ci si sta occupando. Ancora di più, oggi a fare la differenza sono spesso elementi intangibili quali le modalità organizzative, i modelli distributivi, il brand e l'immagine aziendale. Se si vuole allora stimolare la creatività nelle nostre imprese dobbiamo aiutarle a allargare l'orizzonte di riferimento e consigliare loro di guardare non più solo a ciò che è tangibile, ma al servizio, all'immagine, alle modalità organizzative, alla forza di presentarsi in gruppo e in modo coordinato invece che da singoli.

I Comuni, le Provincie, storicamente sono state il riferimento dell'Italia, il tessuto sul quale si è creato quel municipalismo naturale che ha costruito l'Italia. Quali sono i punti di forza e le azioni che dal livello locale è possibile attivare per fronteggiare la crisi -che è di tipo internazionale e finanziaria- e vincere così la sfida?

Credo che la dimensione locale possa ancora essere un valore.
Le banche che centralizzano le decisioni seguendo modelli di rating che non appartengono al nostro sistema culturale e si allontanano dalla dimensione territoriale, perdono gran parte della capacità di discernere tra piccole imprese che non sono più in grado di far fronte all'indebitamento e imprese altrettanto piccole, ma estremamente solide da un punto di vista finanziario.
Così per le imprese che dimenticano il sistema produttivo locale in cui sono cresciute per andare a produrre all’estero. Sono libere di farlo, ma dovrebbero considerare tra i costi nel lungo periodo anche la perdita di quel radicamento sul territorio che ha permesso loro di affermarsi. Una volta sradicate saranno un po’ più simili a tutte le altre imprese.
Cosa possono fare i territori? Promuoversi e vendersi. Per farlo dovrebbero però rinunciare a parte di quei localismi che ancora ci appartengono. Sul mercato globale la piada riminese non compete con quella ravennate, ma con la tortilla.

Si parla spesso di reti di imprese che si formano per competere e innovare sempre più a livello internazionale. Come si possono realizzare tenendo conto del valore aggiunto che possono rappresentare le dinamiche territoriali?

Le Reti di impresa sono oggi l’ultima moda. Diremmo per fortuna, ma si consideri il pericolo delle mode. La certificazione di qualità dovrebbe averci insegnato qualcosa sotto questo aspetto. Bisognerebbe allora valutare come le reti di impresa non nascano oggi e come siano pre-esistenti alla legge sul contratto di impresa del 2009. Le imprese italiane hanno dimensioni così piccole che hanno sempre dovuto collaborare e integrarsi. Oggi potranno avere maggiore visibilità, creare fondi di garanzia e essere formalmente riconosciute. Quel che farà la differenza alla fine, tuttavia, sarà se le reti di impresa potranno effettivamente produrre a costi più bassi o raggiungere nuovi mercati.

I piani strategici locali (sulla scia dell'esperienza spagnola) di cui si discute anche a Rimini, sono una risposta adeguata per dare ai territori una visione di futuro praticabile, compreso una maggiore capacità competitiva? E in quali condizioni hanno dimostrato di poter funzionare?

Con la struttura che dirigo abbiamo sperimentato alcuni anni fa attività di progettazione compartecipata in alcuni territori quali Fusignano in Romagna o la Val’d’Enza tra Reggio e Parma. Sono state esperienze estremamente positive. Avviate dal pubblico hanno visto le imprese partecipare a definire insieme dove portare il proprio comune o distretto. Funzionano quando c’è la volontà del soggetto pubblico, delle imprese e dei privati, ma anche quando li si realizza con metodo e professionalità. Esistono metodologie che abbiamo sperimentato come quella degli EASW (European Awareness Scenario Workshop) che sono, secondo noi, indispensabili per non ricadere nell’improvvisazione e buona volontà.

La crisi ha portato, anche a Rimini, la perdita di diverse imprese e posti di lavoro. Su che cosa o su quali nuove attività questo territorio potrebbe puntare per ridare slancio al suo sviluppo, allargando il ventaglio delle opportunità?

Certo non si può rimanere fermi. Ma sarebbe velleitario decidere di riprogettare il nostro territorio e trasformarlo - come spesso si sente - in una piccola silicon valley. Più sensato appare ripartire da ciò che siamo. Dalla grande componente manifatturiera per innovarla negli usi e nei significati. Ad esempio nelle forme, con reti che permettano di raggiungere nuovi mercati o nei canali, per esempio sfruttando le enormi potenzialità che ci offre il WEB 2.0. Oppure dal turismo, evitando però di promuovere territori troppo specifici per clienti lontani che faticano a distinguere l’Italia dalla Germania.
Più che riprogettare un nuovo radicalmente diverso varrebbe forse la pena di stimolare le innovazioni che i tanti piccoli campioni nascosti presenti anche sul territorio riminese, come racconta il libro 51 Storie di successo aziendale. Il pubblico dovrebbe scoprire e valorizzare queste come altre imprese eccellenti presenti sul territorio e dar loro visibilità. A patto che le imprese si impegnino, queste continuino a investire nel futuro e a farlo facendo attenzione al luogo da cui provengono, per appoggiare il loro successo sulla rete – formale o meno- che si innerva sul territorio.

mercoledì 26 maggio 2010

Riflessioni 2010 - Seminario II - Innovazione, occupazione e territorio


Giovedì 27 maggio, alle 18 nelle Aule 13 e 14 del complesso Alberti, del Polo riminese dell’Università di Bologna (via Quintino Sella 13) si terrà il seminario dal titolo “Economie locali per lo sviluppo - Innovazione, occupazione e territorio.

Relatori
Prof. Carlo Dell’Aringa: Docente di economia all’Università Cattolica di Milano e direttore del Centro Ricerche in economia del lavoro e dell’industria, Presidente Agenzia per la Rappresentanza delle Pubbliche amministrazioni.
Dott. Carlo Pignatari: Direttore di CNA Innovazione. Esperto di pratiche avanzate di management e di strumenti di Benchmarking, svolge attività di ricerca, consulenza e progettazione per le PMI.Interventi

Interventi
Dott. Alberto Brighi: imprenditore ditta Brighi Srl
Dott. Maurizio Focchi: amministratore delegato della società Focchi S.p.A.

Uscire dalla crisi senza accettare di “galleggiare”, richiede azioni che possano contare su una spinta dal basso, dalla dimensione regionale e locale, perché il territorio torna ad essere rilevante.
Non più come mitico luogo in cui si esaurisce un intero ciclo produttivo, ma come ambiente urbano in cui far crescere attività di produzione, servizio e ricerca per essere parti di reti mondiali.
In questo senso, per governare la crisi, il consolidato modello aggregativo su base territoriale e settoriale – cioè l’economia dei distretti industriali – non sembra più sufficiente, da solo, a garantire alte performance per il sistema produttivo italiano. Diviene, quindi, necessario porre attenzione alle nuove reti di impresa, sia orizzontali che verticali, fondate su una convergenza di culture e di linguaggi e su coerenti strategie di sviluppo tecnologico e di innovazione.
Infatti, di fronte alla chiusura delle aziende e all’erosione dell’occupazione dovuta alla gravità della crisi, ci deve essere assunzione di responsabilità degli imprenditori e dei dipendenti affinché si valutino tutte le possibili applicazioni degli strumenti utili (compresi i contratti di solidarietà) per attutire le difficoltà, per salvaguardare gli investimenti in formazione, per intrecciare gli ammortizzatori sociali con la riconversione, qualificazione e formazione permanente, affinché non si degeneri fino all’inoccupabilità.
Qui, tuttavia, torna essenziale l‘elaborazione di una visione da enucleare in un patto federativo tra Regioni non solo italiane ma europee che, se deve spingere per un verso a una competizione tra territori, dall’altra impone la capacità di costruirne le ragioni dell’unità, delineando comunità aperte e solidali, rispettose di un lavoro “decente”, che possano sostenere e anticipare il peso di trasformazioni per molti versi epocali.

Alcuni spunti

Da Carlo Dell’Aringa

Da “Per un nuovo modello di sviluppo”. Questo è l’estratto del libro nato per raccogliere i preziosi contributi emersi dal Ciclo di seminari promosso dall’Istituto Giuseppe Toniolo di Studi Superiori tra gennaio e febbraio 2010. Resoconto giornalistico di Umberto Folena,
Sostenere le imprese-traino
Dell’Aringa si occupa di lavoro, di politiche del lavoro, o di come sia possibile uscire dalla crisi indenni, o almeno subendo meno danni possibile. A questo proposito avanza cinque proposte, che è opportuno riassumere, almeno a grandi linee.
Primo: occorrono interventi che aiutino i paesi con i conti pubblici più traballanti a risanare i loro bilanci, senza essere costretti a mettere in atto politiche drastiche, che produrrebbero effetti devastanti su livelli di occupazione e di disoccupazione.
Secondo: vanno potenziati i servizi all’impiego e gli interventi nel campo della formazione e dell’aggiornamento professionale.
Terzo: vanno incrementati gli ammortizzatori sociali; e qui la sintonia con Campiglio è palese. In particolare, l’invito di Dell’Aringa è a moltiplicare gli sforzi per sostenere le imprese nei momenti di difficoltà, come peraltro si fa quasi ovunque.
Quarto: va rafforzato e qualificato il settore delle piccole imprese.
Quinto: tenere aperte opportunità di investimento e di crescita occupazionale nei settori e nelle imprese che hanno buone prospettive di uscire dalla crisi, in quanto le loro produzioni rappresentano gli sbocchi di probabili evoluzioni dei mercati e della struttura della domanda aggregata di beni e servizi.
È questa forse la proposta più particolare e originale: «Si tratta - spiega Dell’Aringa- di individuare soprattutto i settori che, nei diversi contesti nazionali, potranno svolgere la funzione di traino dell’intera struttura produttiva. Uno di questi settori è l’ambiente».

Da Carlo Pignatari
Come Grandinetti e Rullani citano «l’internazionalizzazione è un fatto, ma non una teoria», per potere spiegare le dinamiche di espansione all’estero delle imprese minori è necessario prendere in considerazione elementi non contestualizzabili, quali la semplice conoscenza diretta di interlocutori in un determinato Paese, la presenza di un management ricettivo o l’abilità di sviluppare e rafforzare le relazioni con clienti nuovi. Modalità, quindi, incentrate sulle capacità interpersonali e di networking.
Le globali hanno, quindi, diverse specializzazioni settoriali e strategie di approccio, ma anche caratteristiche in comune in termini di gestione dell’innovazione a monte e delle relazioni a valle (business to business o business to consumer). Il comportamento di ogni singola azienda viene, infatti, contaminato dalle risorse e competenze tecniche manageriali di cui essa dispone, ma anche dal contesto internazionale nel quale l’impresa cresce…
Le storie e i protagonisti sono diversi, ed è comune l’approccio del tipo «Test the water, then swim for a while»(Caroli et al., 2000) durante il quale l’azienda viene inizialmente a conoscenza dell’opportunità, punta a conoscere e fare proprie le nuove regole competitive del gioco, per poi successivamente strutturare un percorso strategico. Date le pesanti implicazioni finanziarie ed organizzative che il processo d’internazionalizzazione comporta, una volta in gioco, le imprese eccellenti abbattono vincoli produttivi e dimensionali e primeggiano grazie alla capacità di trasferire in nuovi contesti i vantaggi creati nel proprio ambito locale. Con un unico obiettivo: diversificare il rischio ed essere «piccoli, ma globali».
Alla domanda su quanti e quali fossero i mercati esteri serviti, tutti i referenti delle aziende di questo gruppo hanno risposto con un «Perché elencarli? Siamo ovunque». Ciò che maggiormente caratterizza le imprese qui descritte è l’alta capacità di relazionarsi con più contesti, ma anche l’abilità di presidiare il mercato con una struttura distributiva a limitato rischio d’investimento.


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Imprese sociali e sistemi produttivi locali

di Attilio Pasetto

Riflessioni in vista del seminario “Economie locali per lo sviluppo - Innovazione, occupazione e territorio” del 27 maggio 2010.

In allegato un paper che ci ha inviato Attilio Pasetto e che è stato presentato il 21 maggio 2010 al IV Colloquio scientifico di IRIS Network dal titolo “Imprese sociali e sistemi produttivi locali”, nel quale si propone un nuovo modello di sviluppo territoriale fondato sulla collaborazione tra i distretti industriali e le imprese sociali, alla luce di un’idea condivisa di bene comune.

Clicca qui per scaricare il Paper

mercoledì 19 maggio 2010

Riflessioni 2010 - Seminario I - Fiducia e Dono


Martedì 27 maggio, alle 18 nelle Aule 13 e 14 del complesso Alberti, del Polo riminese dell’Università di Bologna (via Quintino Sella 13) si terrà il seminario dal titolo “Il Dono e la fiducia nell'economia di reciprocità - Ripensare praticamente il mercato”

Prof. Andrea Segrè: Professore Ordinario di Politica Agraria Internazionale e Comparata, Preside della Facoltà di agraria dell’Università di Bologna, ideatore del Last Minute Market 

Prof. Andrea Bassi: Docente di Sociologia presso l’Università di Bologna 

Prof. Nevio Genghini: Dottore di ricerca in Filosofia e Scienze umane presso l’Università di Perugia, insegna Storia della filosofia presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose «Alberto Marvelli» di Rimini. Docente di Filosofia al Liceo Classico (Rimini); Collaboratore universitario (Università di Macerata)

Alcuni spunti

Da Andrea Bassi
I tre tipi di valore: valore d’uso, valore di scambio e valore di legame

Concludendo su questo punto ci preme sottolineare che il concetto di valore è un concetto complesso, che ha una estensione semantica ampia e diversificata. Esso ha una natura costitutivamente ambivalente in quanto contiene in sé almeno due declinazioni principali: “l’espressione di una qualità positiva” e di “una unità di misura”. Esso ha costituito da sempre oggetto di studio delle scienze sociali e della sociologia in particolare, che lo ha posto al centro della sua riflessione (avalutatività e razionalità rispetto al valore in Max Weber; giudizi di valore, rappresentazioni collettive, coscienza collettiva, in Durkheim).

Il processo di razionalizzazione dell’occidente ha fatto sì che esso diventasse il fulcro di una disciplina specifica: la scienza economica, la quale lo ha declinato in due significati principali: l’utilità (capacità di soddisfazione diretta ed immediata di un bisogno) = valore d’uso; e posizionamento nel sistema di scambio di beni (dimensione quantitativa – prezzo – rispetto agli altri beni e servizi) = valore di scambio. A partire dagli anni ’80 del secolo scorso un gruppo di economisti, sociologi e antropologi francesi raccoltisi attorno alla “Rivista di Mauss” e fondatori del “movimento antiutilitarista nelle scienze sociali”, ha iniziato ad elaborare un pensiero critico circa gli assiomi del pensiero economico dominante e in particolare nei confronti della sua versione neo-liberista, riformulando una serie di concetti chiave della disciplina.

Nell’ambito di questo progetto di ricerca è stata elaborata una terza declinazione del concetto di valore e cioè quella di “valore di legame”, il quale analogamente al valore di scambio è intrinsecamente relazionale (cioè non esprime una proprietà o caratteristica specifica, propria, dell’oggetto, ma ha “senso” solo nell’ambito di un circuito di relazioni, riferimenti di senso ), ma diversamente da esso non riguarda la relazione tra le cose medesime (prezzo) ma la relazione tra le persone coinvolte nello scambio (gratuità, valore affettivo, tempo).

Da Andrea Segrè
Abbiamo bisogno, insomma, di ribaltare le dinamiche dei consumi intervenendo sui grandi numeri, sui consumatori, sui mercati, sulle istituzioni a partire dai luoghi in cui avviene il consumo (e lo spreco) di massa.

Bisogna cercare la sostenibilità dei processi, oltre che dei prodotti, per affermare una logica nuova, quella della sufficienza, che sia in grado di intervenire nel concreto nei modelli di consumo riducendo a monte lo spreco delle risorse. Indirizzando sia chi produce, sia chi distribuisce, sia chi acquista verso un modello che faccia della quantità una funzione della qualità.

Però non si possono condannare i consumi con lo scopo di convincere le persone a consumare meno.

Fare (veramente) meno con meno: verso l’intelligenza ecologica. Eppure bisognerà anche rendersi conto di quale dazio il pianeta paga quotidianamente come conseguenza dei nostri stili di vita, quali sono i costi per la nostra salute e per l’ambiente. In effetti è ormai ora di cominciare ad affrontare la realtà e provare a cambiare in qualche modo i nostri stili di vita, portando delle correzioni anche minime ai nostri consumi: non moriremo mica se abbassiamo il riscaldamento e indossiamo un maglione in più, come diceva Jimmy Carter ai tempi dello shock petrolifero. L’efficienza è una droga miracolosa, l’eco-efficienza è una strada affascinante e promettente, ma il risparmio è ancora meglio e soprattutto è immediato. Fare di più con meno è sicuramente un ottimo punto di partenza. Tuttavia per arrivare agli obiettivi di emissioni che avrebbe voluto regalarci il vertice di Copenhagen del 2009, bisognerà sicuramente non sprecare e risparmiare molto: fare di meno con meno. Ecco la nuova formula. Che implica innanzitutto intelligenza, e poi ci vuole leggerezza e trasparenza…

Non a caso con sempre più frequenza in questi giorni stiamo leggendo e parlando di “trasparenza”, concetto che sta assumendo sempre di più, forse in maniera un po’ ossessiva, ma forse utile, una centralità in ogni discorso. Viene proclamata con enfasi per l’economia, per le amministrazioni, per le carriere, per l’accesso ai servizi di welfare, per lo spreco, per i comportamenti legali, addirittura per l'accesso ai voli aerei bisogna che anche i nostri corpi diventino “trasparenti”. Un esempio di trasparenza è ancora il Last Minute Market che funziona applicando una strategia win-win: tutti gli stakeholders guadagnano, direttamente o indirettamente qualcosa.

lunedì 17 maggio 2010

Andrea Bassi - Sul Concetto di Valore

di Andrea Bassi

“Nowadays people know the price of
everything and the value of nothing.”
(Oscar Wilde – The Picture of Dorian Gray)

Un solo termine, tanti significati
La difficoltà nell’affrontare la tematica del valore, cioè di fare del valore il proprio oggetto di studio, sta nella sua costitutiva ambivalenza, cioè nel fatto che tale termine/concetto contiene nella propria estensione semantica almeno due dimensioni affatto diverse, ma compresenti. Quella di esprimere una qualità positiva circa una cosa, una persona, una situazione o una condizione e quella di essere una unità di misura cioè esprime la determinazione assunta da una variabile.
Tale ricchezza semantica è testimoniata anche dalle numerose definizioni che il termine valore assume nella vita sociale. Lo schema seguente riporta in maniera sintetica le definizioni indicate in due dei più diffusi dizionari della lingua italiana il Garzanti (8 definizioni) e lo Zingarelli-Zanichelli (16 definizioni).
Come emerge chiaramente è possibile individuare quattro raggruppamenti tendenziali di tali definizioni corrispondenti ad altrettanti complessi semantici.
In primo luogo il valore rappresenta “qualsiasi qualità positiva, considerata in astratto come elemento di riferimento per un giudizio” (Garzanti, def. 4) o “ciò che è vero, bello, buono secondo un giudizio personale più o meno in accordo con quello della società dell’epoca e il giudizio stesso” (Zingarelli, def. 11).
In secondo luogo il valore costituisce la “misura di una grandezza fisica; determinazione assunta da una variabile” (Garzanti, def. 7) o “elemento associato a un elemento dato in un’applicazione” (Zingarelli, def. 12).
Vi è poi il terzo costrutto semantico, molto ampio, che comprende le numerose declinazioni che il concetto di valore assume in ambito economico, su cui torneremo tra poco.
Infine il quarto raggruppamento contiene una miscellanea di definizioni che rimandano in un qualche misura alle prime due, cioè una qualità positiva di una persona (come ad esempio: coraggio, virtù, bontà di indole, eroismo) o di una cosa (gioielli, titoli di borsa, pietre preziose, oggetti di pregio, oggetti artistici); oppure una unità di misura (ad es. prezzo, costo, intensità del colore).
La centralità che la dimensione economica ha assunto nella vita sociale delle democrazie occidentali è testimoniata dalla numerosità di declinazioni che il concetto di valore ha sviluppato in questo ambito semantico.
Vi sono qui alcune coppie terminologico-concettuali note anche nel linguaggio comune, quali valore d’uso vs. valore di scambio (di un bene), valore nominale vs. valore reale (della moneta o di un titolo di Borsa). Nonché una prima definizione in termini economici del concetto di “valore aggiunto”.
Per trattare adeguatamente questa tematica intendo sviluppare una argomentazione che prende spunto dalla riflessione teorica di J. Godbout avanzata in una serie disaggi pubblicati sulla “Revue du Mauss” ed espressa in modo sistematico nella sua opera più nota L’Esprit du don (1992).

La duplice rottura della modernità
L’autore afferma che la nascita della società moderna propriamente detta implica una duplice rottura rispetto ai legami che regolavano la vita sociale nelle società pre-moderne e feudali: i rapporti di servitù (costrizione) e i rapporti comunitari (obblighi morali). Le istituzioni che operano tale superamento sono, rispettivamente, il mercato prima e lo Stato successivamente (in specie nella versione dello Stato provvidenza o Stato sociale). Nelle società arcaica e feudale le cose (i beni) circolano inseriti nei rapporti personali, all’interno di legami comunitari diretti, personalizzati, retti da norme sociali. Il mercato introduce un capovolgimento in seno ai rapporti sociali, esso istituzionalizza dei rapporti spersonalizzati tra individui che diventano agenti neutri. Il mercato costituisce “uno spazio”, un luogo senza legami personali, in cui le cose si scambiano tra loro grazie al meccanismo dei prezzi, indipendentemente dalla volontà degli attori.
Qual è il meccanismo che fa saltare la regolazione pre-moderna? Secondo Godbout in tali società “tutto ciò che viene prodotto è destinato a qualcuno”, siamo di fronte cioè ad una indissociabilità tra atto di produzione e il suo fine, in ultima analisi la persona a cui il prodotto è destinato. Tale norma fondamentale viene meno nel momento in cui si comincia a produrre qualcosa non in quanto qualcuno l’ha domandata, ne aveva bisogno, ma per offrirla sul mercato, cioè ad una platea anonima di potenziali acquirenti. Il fine della produzione non è più l’utilità dell’utilizzatore ma quella del produttore. Fa così la sua comparsa nella storia dell’umanità il “surplus”, il mercato in tal modo “libera” dalla subordinazione personale. Tale vantaggio ha però un costo che consiste nell’introdurre nel sistema l’incertezza (circa la vendita dei beni prodotti in più). Vi è bisogno pertanto di un intermediario, tra produttore e utilizzatore, cioè di qualcuno che trovi una domanda per l’offerta. Fa così la comparsa la figura del mercante (commerciante), che assume il ruolo di punto focale del sistema, in quanto è il meccanismo chiave per l’assorbimento del rischio maggiore, quello che può mettere in crisi il sistema nel suo complesso, cioè a dire il rischio di sovrapproduzione.
Al termine di questo processo storico il senso del rapporto di produzione risulta così “capovolto” e la società è diventata utilitaristica, in quanto ha dissociato l’utilità dall’uso, sostituendo la figura dell’utilizzatore con quella del consumatore. Da questo momento un mondo di “prodotti” invaderà la società, in quanto la produzione da mezzo diventa fine in sé, dato che per ogni produttore l’obiettivo sarà quello di produrre sempre di più (anche cose inutili) senza curarsi di chi utilizzerà i suoi prodotti finali. Ciò implica la necessità di creare permanentemente bisogni artificiali per vendere i beni prodotti.
Il capovolgimento dell’ordine fine-mezzo fa sì che la produzione diventa la misura dell’utilità, cioè il fondamento del valore delle persone. Il valore di scambio ha sostituito il valore d’uso, nella determinazione della posizione reciproca delle cose tra loro e rispetto alle persone.
La modernità ha compiuto così la prima rottura, ha introdotto la prima libertà: la libertà dal rapporto di servitù tra le persone, le cose che circolano non “trasportano” più il legame sociale, ne sono “liberate”. Vi è però un secondo tipo di legame (obbligo) da cui la modernità ci “libera” ed è quello dai rapporti comunitari, ciò avviene molto più tardi grazie allo stato sociale. Fino a questo momento il rapporto mercantile riguarda solo la produzione di cose (beni) e non invade lo scambio dei servizi. Il mercato libera i singoli dalla condizione di sottomissione nei riguardi del signore, ma non dal sistema dei rapporti primari, familiari, di parentela, di villaggio.
Sarà la nascita e lo sviluppo delle Stato provvidenza che si occuperà di introdurre questa seconda “liberazione” dai legami sociali. Esso immette il dualismo produttore-utente nella sfera dei rapporti di servizio, attraverso la figura di un secondo intermediario, che svolge la funzione che il mercante assume nel sistema economico, cioè il burocrate. Il funzionario, il dipendente pubblico, rappresentano il primo passo verso un lungo processo di professionalizzazione della sfera dei servizi alla persona che divengono ora un “lavoro sociale” svolto da specialisti. La comparsa dell’intermediario, anche in questa sfera di relazioni, comporta la progressiva trasformazione di ogni legame sociale in un rapporto tra estranei.
Godbout parla con una certa ironia di questo processo di liberazione: “le donne che prima si occupavano gratuitamente dei figli e dei genitori, ora si occupano a pagamento dei figli e dei genitori di altre donne” (Ivi, pag. 201), le quali, aggiungiamo noi, a loro volta probabilmente sono occupate in professioni che riguardano il benessere dei parenti delle prime! Ciò che si perde, rispetto al guadagno in libertà individuale, è la qualità del legame, in ragione della dissociazione che si attua tra servizio reso e legame personale con il beneficiario. Il quale appunto diventa un utente, anonimo e spersonalizzato, analogamente al modo in cui l’utilizzatore era divenuto consumatore nel mercato.
Ora gli scambi tra le persone non veicolano più niente, se non dei sentimenti. È l’insorgenza del legame affettivo allo stato puro, cioè liberatosi da ogni aspetto materiale o utilitario.
Si completa così il progetto della modernità: quello di compiere una liberazione integrale dailiberi - in quanto consumatori ed utenti - di legami sociali. I cittadini sono ora liberati dalla servitù nei confronti del signore (sudditi) e dagli obblighi nei confronti della comunità (morale), sottomettersi alla legge della produzione perpetua (della crescita continua). La società, aggiungiamo noi, diventa “socializzante”, in quanto il suo scopo principale è quello di “liberarci dagli altri”.

La riduzione quantitativistica del concetto di valore
Per Godbout tale duplice rottura comporta anche un rovesciamento del significato delle parole e in particolare del termine valore, il quale subisce una riduzione semantica in senso quantitativo.
La riduzione dei valori al loro equivalente quantitativo (prezzo, somma di denaro) produce una progressiva sostituzione del valore d’uso da parte del valore di scambio, che colonizza l’estensione semantica del concetto di valore. Secondo il nostro la teoria economica non è in grado di spiegare le possibili declinazioni del significato di valore e in particolare sottostima, “nasconde”, una terza manifestazione di esso che è presente, accanto alle altre due, anche nelle società complesse altamente differenziate: quella del “valore di legame”.
Con il concetto di “valore d’uso” infatti l’economia denota la capacità (il grado) di un bene di soddisfare un bisogno (utilità) da parte di un fruitore/beneficiario (utilizzatore) e pertanto indica una caratteristica propria del bene, una sua qualità intrinseca, che lo rende unico. Laddove con il concetto di “valore di scambio” si esprime una misura quantitativa (denaro) che segnala la posizione relativa di un determinato bene nell’ambito della rete degli scambi (monetari) di oggetti. Esso è per sua natura relazionale, ma indica il rapporto tra le cose scambiate. Ora accanto a questi due modi di considerare il valore, secondo il nostro, ne esiste un terzo, anch’esso di natura intrinsecamente relazionale ma volto ad esprimere il rapporto tra le persone inserite nella relazione di scambio e non meramente il rapporto tra gli oggetti dello scambio. Si tratta appunto del valore di legame. Con esso si indica cioè che ciò che viene scambiato “vale” non in sé (valore d’uso) né in relazione ad altri oggetti (valore di scambio) ma nell’ambito della relazione tra gli attori agenti. Cioè all’interno della rete (circuito) dei legami tra i soggetti (persone), ed esso esprime precipuamente “il rafforzamento dei legami”.
Godbout apporta numerosi esempi di come le cose assumano valori diversi a seconda della loro capacità o meno di “nutrire” i legami sociali. Si tratta ovviamente di uno scambio simbolico, che contiene in sé la “memoria” della forza del legame (valore affettivo del rapporto) che lega i soggetti dello scambio (relazione). Così come il prezzo è la memoria del “valore di scambio”, la gratuità esprime il valore di legame. Esso contiene in sé il valore del tempo, che il mercato ha cancellato con l’estensione nello spazio globalizzato di un eterno presente. Nelle parole dell’autore: “il valore di legame (…) serve a dimostrarci che non siamo degli oggetti” (Ivi, p. 220).

I tre tipi di valore: valore d’uso, valore di scambio e valore di legame
Concludendo su questo punto ci preme sottolineare che il concetto di valore è un concetto complesso, che ha una estensione semantica ampia e diversificata. Esso ha una natura costitutivamente ambivalente in quanto contiene in sé almeno due declinazioni principali: “l’espressione di una qualità positiva” e di “una unità di misura”. Esso ha costituito da sempre oggetto di studio delle scienze sociali e della sociologia in particolare, che lo ha posto al centro della sua riflessione (avalutatività e razionalità rispetto al valore in Max Weber; giudizi di valore, rappresentazioni collettive, coscienza collettiva, in Durkheim).
Il processo di razionalizzazione dell’occidente ha fatto sì che esso diventasse il fulcro di una disciplina specifica: la scienza economica, la quale lo ha declinato in due significati principali: l’utilità (capacità di soddisfazione diretta ed immediata di un bisogno) = valore d’uso; e posizionamento nel sistema di scambio di beni (dimensione quantitativa – prezzo – rispetto agli altri beni e servizi) = valore di scambio. A partire dagli anni ’80 del secolo scorso un gruppo di economisti, sociologi e antropologi francesi raccoltisi attorno alla “Rivista di Mauss” e fondatori del “movimento antiutilitarista nelle scienze sociali”, ha iniziato ad elaborare un pensiero critico circa gli assiomi del pensiero economico dominante e in particolare nei confronti della sua versione neo-liberista, riformulando una serie di concetti chiave della disciplina.
Nell’ambito di questo progetto di ricerca è stata elaborata una terza declinazione del concetto di valore e cioè quella di “valore di legame”, il quale analogamente al valore di scambio è intrinsecamente relazionale (cioè non esprime una proprietà o caratteristica specifica, propria, dell’oggetto, ma ha “senso” solo nell’ambito di un circuito di relazioni, riferimenti di senso ), ma diversamente da esso non riguarda la relazione tra le cose medesime (prezzo) ma la relazione tra le persone coinvolte nello scambio (gratuità, valore affettivo, tempo).

Indicazioni bibliografiche

Colozzi I. (2006), Terzo settore e valutazione di qualità. Misurare la produzione di beni relazionali, in “Lavoro Sociale”, vol. 6, n. 3, 2006, pp. 411-419
Durkheim E. (1911), Giudizi di valore e giudizi di realtà, in E.Durkheim Sociologia e Filosofia (a cura di) Bouclé C.(1924) .
Godbout J.T. (1992), L’Esprit du don, Edition La Découverte, Paris.
Latouche S., (2004), Survivre au développement. De la décolonisation de l’imaginaire économique à la construction d’une société alternative, Vol. II Petit traité de la décroissance sereine, Editions Mille et une Nuits, Paris.
Nef – New Economic Foundation (2009), A bit Rich: Calculating the real value to society of different professions, Nef, London.
Patel R. (2009), The Value of Nothing. How to reshape Market Society and Redefine Democracy, Portobello Books, London.
Stiglitz J., Sen A., Fitoussi J-P., (2009), Report by the Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress, Paris.
Weber M. (1995), Economia e Società, Vol. I, Edizioni di Comunità, Milano.


DIZIONARIO GARZANTI

DIZIONARIO ZANICHELLI

1. QUALITA’ POSITIVA

3 l'insieme delle caratteristiche e delle qualità che danno pregio a una persona, a una cosa, a una situazione, a una condizione, e che le rendono apprezzabili;

4 (estens.) qualsiasi qualità positiva, considerata in astratto come elemento di riferimento per un giudizio;

1. complesso delle qualità positive in campo morale, intellettuale, professionale, per le quali una persona è degna di stima;

10. importanza che ha qualcosa, sia oggetti-vamente in se stessa, sia soggettivamente nel giudizio dei singoli;

11. ciò che è vero, bello, buono secondo un giudizio personale più o meno in accordo con quello della società dell’epoca e il giudizio stesso;

2. UNITA’ DI MISURA

7 (scient.) misura di una grandezza fisica; determinazione assunta da una variabile;

8 (mus.) durata di una nota;

12. (mat.) elemento associato a un elemento dato in un’applicazione;

13. (mus.) durata della nota o della pausa corrispondente;

14. con valore di, avere valore di, locuzioni che esprimono equivalenza fra due fatti, rispetto soprattutto agli effetti, all’importanza, alla funzione;

3. ECONOMICO

1 (econ.) caratteristica di un bene per cui esso è scambiabile con una certa quantità di altri beni (valore di scambio), o è in grado di essere utile, di soddisfare un bisogno (valore d'uso); nel linguaggio corrente, l'equivalente in denaro del bene stesso, il suo prezzo, il suo costo;

valore aggiunto, differenza tra il valore dei beni o dei servizi prodotti da un'impresa e il valore dei suoi acquisti di beni e servizi;

valore nominale, detto di monete, francobolli, titoli ecc., quello stabilito in termini monetari all'atto dell'emissione;

valore reale, il valore effettivo, espresso in termini di moneta a pari potere d'acquisto;

6. (econ.)

a) valore d’uso: l’utilità che un dato bene ha per chi lo possiede;

b) valore di scambio: quantità di un bene o di moneta che si da in cambio di un altro bene o servizio di cui si abbisogna o che si desidera:

c) valore aggiunto della produzione: aumento di valore che riceve una cosa per effetto delle lavorazioni e trasformazioni alle quali viene sottoposta per renderla utilizzabile e che si ottiene sottraendo dal valore della produzione quello delle materie prime e ausiliarie impiegate per ottenerla;

d) valore nominale: quello riportato sul titolo, che nelle azioniobbligazioni la somma per la quale l’ente committente si riconosce debitore; indica la frazione di capitale sociale che ciascuna di esse rappresenta e nelle

4. VIRTU’, CORAGGIO ED ALTRO

2 in senso concreto, tutto ciò che ha un valore definito e può essere oggetto di negoziazione;

5 coraggio, ardire, eroismo;

6 riferito a cosa, validità, efficacia;

2. virtù, bontà di indole, natura, costumi

3. coraggio, ardimento, eroismo dimostrati nell’affrontare il nemico e nel sostenere le dure prove della guerra;

4. prezzo, costo;

5. peso purezza, taglio, intensità del colore di una pietra preziosa;

7. (al pl.) gioielli e oggetti preziosi;

8. (al pl.) tutto ciò che può essere comprato e venduto in Borsa;

9. pregio;

15. significato;

16. (al pl.) nel linguaggio della critica d’arte, gli elementi stilistici particolari di un’espressione artistica.

Schema n. 1 – L’estensione semantica del concetto di valore

Andrea Segré - Last Minute Message (In a Bottle)

di Andrea Segré

Estratti dal Capitolo 1 di Last Minute Market - Ed. Pendragon

Dalla microstoria ai microcosmi: il nuovo mondo
Questo “mondo nuovo” è ciò che, inaspettatamente, si dischiude da un progetto dall’inusuale dizione anglosassone, Last Minute Market, in apparenza così semplice da sembrare banale: la scoperta dell’acqua calda. Recuperare ciò che è ancora utile e donarlo a chi ha bisogno. Meno sprechi, meno rifiuti, meno inquinamento, più sostenibilità, più cibo, più salute, più risparmi, più investimenti, più solidarietà. L’uovo di Colombo, l’acqua calda appunto: con l’unico merito reale di averla resa tiepida in modo da potersi lavare le mani senza scottarsi. Questo è, in fondo, il Last Minute Market.
Ma qual è dunque questo mondo nuovo? Un mondo che prende un termine negativo, lo spreco, caratteristica allarmante della nostra società anoressica e bulimica, lo scompone nei segni: –spr e +eco e lo uguaglia – è pur sempre un’equazione – alle formule per una società sufficiente, una società dove “abbastanza non è mai troppo” e dove “più non è uguale a meglio”.
Meno spreco più ecologia uguale sufficienza. Dobbiamo sprecare di meno, un imperativo etico: lo spreco è dappertutto, siamo circondati. Eliminarlo è impossibile, ridurlo si può. Soprattutto non dobbiamo alimentarlo. Ma dobbiamo anche arrivare a una nuova razionalità ecologica cercando l’abbastanza quando ancora il troppo sarebbe (è) possibile. Raggiungere cioè la sufficienza, un principio intuitivo oltre che razionale dal punto di vista personale, organizzativo ed ecologico appunto.
E, dati i nuovi limiti ecologici globali, pure etico e, se applicato ovunque, anche equo. Ma non basta. Quella goccia di acqua tiepida deve espandersi e diventare torrente, fiume, mare, oceano. E non basterà ancora. Bisogna andare oltre, avanti. E cioè: per arrivare a un mondo nuovo o forse più semplicemente alla fine (naturale) del mondo oltre al principio della sufficienza le parole d’ordine, i nostri pensieri, le nostre azioni, dovranno essere: leggere, trasparenti, intelligenti.
Una società sufficiente, un’economia leggera e trasparente, un’ecologia intelligente. Così sarà, dovrà essere, il mondo nuovo, se veramente vogliamo – e noi lo vogliamo – che la festa che è la nostra vita continui.

Più è meglio, meno ma buono, meno con meno: le nuove formule
Eppure dentro la quantità delle cose, purché non troppo ridotta (sufficiente), bisognerebbe discutere anche delle qualità, delle scelte, dei bisogni. E degli impatti: economici, ambientali, nutrizionali, salutari. Un esempio classico, seppure come caso di studio, riguarda la filiera agroalimentare, dal campo alla tavola con tutto ciò che ci sta in mezzo. Per un consumatore, diciamo di Bologna, è meglio acquistare 1 kg di pomodori di Pechino per 1 euro oppure 1 kg di pomodori di Pachino per 2 euro?
La risposta, e non vale solo per il consumo di prodotti alimentari biologici, sta nel trovare un nuovo equilibrio fra quantità e qualità che andiamo ad acquistare e un nuovo rapporto che consideri anche gli impatti del nostro acquisto su noi stessi, la nostra economia, la nostra salute e sul nostro ambiente.
Il punto di arrivo, la formula, si trova nella “società sufficiente” dove – ripetiamolo ancora - “più non è uguale a meglio” e “abbastanza non è mai troppo”. È proprio una “logica” che riduce intanto la propensione allo spreco che contraddistingue l’attuale modello di consumo non solo occidentale. Insomma, un percorso che integra l’idea della decrescita e degli altri approcci che puntano a riscoprire i valori della sobrietà. Ma soprattutto la sufficienza, da concetto intuitivo, diventa principio di gestione delle risorse, limitate e non più scarse, e dunque da non sprecare: mai.
Dunque quantità e qualità. La prima va ridotta, la seconda mantenuta. Si spreca tanto, troppo. Si mangia male, troppo male. Entrano in gioco modelli culturali, stili di vita, compulsioni indotte dalla pubblicità che condizionano non solo il consumo alimentare: consumiamo per vivere o viviamo per consumare? La moderazione, la sobrietà, la semplicità volontaria, la frugalità, il neoascetismo insomma rimangono possibili scelte individuali di comportamento, pur se straordinariamente valide dal punto di vista culturale sono irrilevanti o per meglio dire insufficienti rispetto al contesto attuale. Così come la dimensione dei gruppi d’acquisto o della vendita diretta, che assai difficilmente potranno ribaltare le tendenze in atto nella grande distribuzione, può incidere solo parzialmente sulle dinamiche in corso. Abbiamo bisogno, insomma, di ribaltare le dinamiche dei consumi intervenendo sui grandi numeri, sui consumatori, sui mercati, sulle istituzioni a partire dai luoghi in cui avviene il consumo (e lo spreco) di massa.
Bisogna cercare la sostenibilità dei processi, oltre che dei prodotti, per affermare una logica nuova, quella della sufficienza, che sia in grado di intervenire nel concreto nei modelli di consumo riducendo a monte lo spreco delle risorse. Indirizzando sia chi produce, sia chi distribuisce, sia chi acquista verso un modello che faccia della quantità una funzione della qualità.
Però non si possono condannare i consumi con lo scopo di convincere le persone a consumare meno.

Fare (veramente) meno con meno: verso l’intelligenza ecologica
Eppure bisognerà anche rendersi conto di quale dazio il pianeta paga quotidianamente come conseguenza dei nostri stili di vita, quali sono i costi per la nostra salute e per l’ambiente. In effetti è ormai ora di cominciare ad affrontare la realtà e provare a cambiare in qualche modo i nostri stili di vita, portando delle correzioni anche minime ai nostri consumi: non moriremo mica se abbassiamo il riscaldamento e indossiamo un maglione in più, come diceva Jimmy Carter ai tempi dello shock petrolifero. L’efficienza è una droga miracolosa, l’eco-efficienza è una strada affascinante e promettente, ma il risparmio è ancora meglio e soprattutto è immediato.
Fare di più con meno è sicuramente un ottimo punto di partenza. Tuttavia per arrivare agli obiettivi di emissioni che avrebbe voluto regalarci il vertice di Copenhagen del 2009, bisognerà sicuramente non sprecare e risparmiare molto: fare di meno con meno. Ecco la nuova formula. Che implica innanzitutto intelligenza, e poi ci vuole leggerezza e trasparenza.
È a questo punto allora che subentrano la creatività e l’intelligenza ecologica, ovvero saper creare soluzioni ecologiche intelligenti che puntino sulle soluzioni e non solamente sulle retoriche politiche di cambiamento. La riduzione della mancanza di sostenibilità non crea sostenibilità: occorre mettere in discussione la mentalità del consumatore nel suo complesso, ovvero dice ancora Anthony Giddens, dobbiamo considerare la possibilità che alcuni stili di vita tradizionali debbano servire a mostrare una strada alternativa, e intelligente, in nome di una società sufficiente.

Fate quel che facciamo
Il problema ambientale, ma non solo quello, richiede una prospettiva interdisciplinare che abbracci le scienze naturali e le scienze sociali, che riduca la frammentazione dei saperi mettendoli in dialogo costante; che abbia un approccio storico e transculturale: è necessaria dunque una nuova sapienza.
Il termine sufficienza indica un concetto semplice e intuitivo: come esiste una quantità ottima di consumo di un bene, superata quella quantità, il consumo del bene in questione diventa eccessivo. Diventa principio perché è necessaria una struttura che permetta di riconoscere in ogni contesto quando abbastanza diventa troppo. Mentre per alcuni atti (mangiare troppo) bastano percezioni fisiche soggettive, per poter applicare l’idea in modo più ampio e per regolare situazioni in cui individui o collettività rischiano di compromettere il benessere nel lungo periodo – benessere proprio in senso stretto, ma anche l’ambiente circostante – diventa necessario creare una regola generale.

Leggerezza e trasparenza: per una nuova e-co-scienza
Nelle nostre “vite di corsa” per salvare noi e gli altri dalla “tirannia dell’effimero”9 oltre all’intelligenza ecologica per convincerci a cambiare i nostri stili di vita e renderli sufficienti abbiamo bisogno di altre due “cose”: leggerezza e trasparenza. Un’eco-logia-nomia leggera e trasparente.
Non a caso con sempre più frequenza in questi giorni stiamo leggendo e parlando di “trasparenza”, concetto che sta assumendo sempre di più, forse in maniera un po’ ossessiva, ma forse utile, una centralità in ogni discorso. Viene proclamata con enfasi per l’economia, per le amministrazioni, per le carriere, per l’accesso ai servizi di welfare, per lo spreco, per i comportamenti legali, addirittura per l'accesso ai voli aerei bisogna che anche i nostri corpi diventino “trasparenti”. Un esempio di trasparenza è ancora il Last Minute Market che funziona applicando una strategia win-win: tutti gli stakeholders guadagnano, direttamente o indirettamente qualcosa.
Soprattutto la trasparenza nell’informazione è importante perché i consumatori sono molto attenti La capacità di competere, risolvere problemi, innovare, raccogliere sfide e raggiungere obiettivi, essere ecologicamente intelligenti, è proporzionata alla capacità di informare le persone (al momento giusto e per il giusto motivo), come sta accadendo adesso con le questioni riguardanti lo spreco e gli stili di vita. La trasparenza (anche quella ecologica) è sempre frutto di una scelta, e solo se tale è consapevole e duratura: comunicare le cifre dello spreco o di quanto costa smaltire il cibo che buttiamo vuol dire cominciare a cambiare la rotta e forse stile di vita.
Allora per questo mondo nuovo abbiamo bisogno anche di una nuova scienza, l’ecoscienza, anzi un eco- scienza: una casa, un ambiente della scienza e della ragione che si ponga la coscienza del limite, della responsabilità e della consapevolezza. Last Minute Market, nel suo piccolo ci dimostra che si può fare.