sabato 29 ottobre 2011

Un ritorno all'economia di mercato civile:
il perseguimento del bene comune

di Tommaso Manzillo
Dottore commercialista

Che la politica economica dei governi italiani degli ultimi anni abbia perso la bussola dei veri principi liberali si era già capito da un bel po’, anche durante le tante campagne elettorali, ma la confusione che sta imperversando per il varo della manovra economica, ancora in discussione, è la conferma di un vecchio modo di fare politica, più vicino ad interessi di una parte soltanto, più forte e determinante, piuttosto che al benessere collettivo. Le linee lungo le quali si sta muovendo il provvedimento sono fondate sull’ipocrisia, sull’insulto contro quelli che sono i veri principi ispiratori di uno Stato liberale, privandolo di un serio progetto industriale di crescita e di progresso, senza spirito innovatore che riporti il sistema verso lo sviluppo economico. Manca il coraggio del liberale! Quell’Albero della Libertà piantato nel bel mezzo della Rivoluzione napoletana, che per decenni ha prodotto e continua a produrre frutti succulenti, da noi oggi cresce su di un terreno arido, che abbisogna di nuova linfa e di essere innaffiato da quell’acqua limpida che sgorga dalle sorgenti liberali che erano dei nostri padri.

I debiti eccessivi nei bilanci degli Stati, sono certamente frutto di miope scelte del passato, lontane anni luce dalle logiche liberali, improntate sulla crescita generale e della collettività, piuttosto che ispirate da interessi personali, locali, di partito, che hanno prodotto disavanzi esorbitanti. Questa situazione è sicuramente di ostacolo a quelle politiche di cui oggi necessita il sistema, per superare l’attuale fase congiunturale. Come hanno evidenziato studiosi ed economisti, purtroppo, l’indebitamento eccessivo è sempre seguito da almeno un decennio di bassa crescita, in cui i consumi e gli investimenti ristagnano mentre la disoccupazione aumenta. Tutto questo porta ad un ulteriore rallentamento dell’economia e, di conseguenza, ulteriori difficoltà per la copertura del debito. Ed è in questa fase che servono risorse vere per ridare ossigeno al mondo economico, stimolando la produzione ed il lavoro, premiando tutte quelle iniziative che vanno in questa direzione, risorse che non devono essere viste come spese, piuttosto come investimenti per il futuro: pensiamo alle famiglie, alle imprese, alla scuola, alla sanità, alla ricerca scientifica ed universitaria. Nel pensiero dell’abate A. Genovesi, “il fine dell’economia civile, siccome è più di una volta detto, è: I. l’aumentazione del popolo; II. La di lui ricchezza; III. La sua naturale e civile felicità; IV. E con ciò la grandezza, gloria, e felicità del Sovrano”.

L’attività politica-amministrativa dei governi degli ultimi venti anni, almeno, è stata caratterizzata dalla mancanza, come hanno sottolineato numerosi economisti negli anni addietro, di quel modo di agire tipico del “buon padre di famiglia”, perché durante gli anni delle cosiddette “vacche grasse”, ossia la crescita, occorreva approntare tutte quelle riforme che liberassero l’economia da lacci e impedimenti di ogni sorta, per la riforma fiscale e previdenziale, la giustizia, il welfare e altro ancora, creando quegli avanzi di bilancio, linfa indispensabile cui attingere durante il periodo delle “vacche magre”, ossia la depressione. Già nel 1967 Paolo VI esortava i governi perché “lo sviluppo esige trasformazioni audaci, profondamente innovatrici. Riforme urgenti devono essere intraprese senza indugio. A ciascuno l'assumersi generosamente la sua parte, soprattutto a quelli che per la loro educazione, la loro situazione, il loro potere si trovano ad avere grandi possibilità d'azione”. Purtroppo, i provvedimenti di riparazione vengono sempre adottati a ridosso delle catastrofi. Risorse generate dal risparmio, come diverse volte esortava dagli scranni parlamentari G. Fortunato, per incentivare gli investimenti e la crescita, perché la produzione genera ricchezza e quindi lavoro, non le rendite di capitale, che contribuiscono alla propagazione della speculazione. Ma rimase “voce di uno che grida nel deserto” (Mc 1, 1-3)! E il debito divenne zavorra!...

Nella logica del raggiungimento del bene comune, riprendendo le ultime parole di De Viti De Marco, obiettivo che fu dell’economia di mercato civile, snodo cruciale diventa la riduzione delle diseguaglianze sociali, economiche, politiche, civili, perché il progresso possa raggiungere ogni fascia della popolazione e non restare a vantaggio dei soliti pochi privilegiati. In questo senso, vi è un interessante lavoro del premio Nobel per l’Economia nel 1998, Amartya K. Sen, dal titolo La diseguaglianza (2000), in cui l’economista va all’affannosa ricerca di una risposta alla domanda “diseguaglianza di che cosa?”. In particolare, nelle sue meditazioni mette subito in evidenza come il tema della diseguaglianza affonda le sue radici nella sostanziale differenza interpersonale, basata sul sesso, sull’età, sulle capacità fisiche, sul carattere e le sue determinazioni psicologiche e altro ancora. In questo, una equa distribuzione del reddito, ispirata da politiche tese a ridurre e a combattere la forte differenza nel tessuto sociale, potrebbe portare a profonde diseguaglianze dovute alle diversità personali, al diverso approccio e nella diversa capacità dell’individuo di trasformare le risorse e i mezzi a disposizione in appagamento dei bisogni, soprattutto per il differente livello di libertà di cui ogni uomo può godere. Diviene, a questo punto, riduttivo pensare alla diseguaglianza, e quindi anche alla povertà, soltanto in termini di reddito e di reddito minimo di sussistenza, quando è presente una molteplicità di fattori che possono influenzare la diseguaglianza. Paolo VI parlava dello “scandalo di disuguaglianze clamorose, non solo nel godimento dei beni, ma più ancora nell'esercizio del potere”. Con l’affacciarsi dell’attuale pesante congiuntura economica, le diseguaglianze stanno divenendo sempre più croniche e sanabili con molta difficoltà, come è stato riconosciuto da Benedetto XVI nella Sua Lettera Enciclica Caritas in Veritate (2009), denunciando l’“erosione del 'capitale sociale', ossia di quell’insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili ad ogni convivenza civile”. Il lassismo da parte delle pubbliche istituzioni abilitate al controllo dei sistemi economici, a cui abbiamo assistito prima della crisi del 2008, sono state le principali artefici del degrado sociale in cui oggi versa l’uomo, vittima del suo stesso operare affannoso, alla ricerca del facile guadagno nell’ottica del breve periodo, piuttosto che mirare alle prospettive future: colpevole di miopia e causa dei suoi stessi mali. E. Berselli afferma che “la grande recessione non è semplicemente una questione tecnica e di regole, né soltanto di autorità deficitarie nel controllo, bensì è un problema anche questo 'totale' di distribuzione fallimentare della ricchezza a vantaggio dei ricchi e a sfavore dei poveri” (2010). Il tema della diseguaglianza è stata affrontata agli albori dell’era industriale nell’Europa continentale, da Leone XIII e ripresa da Giovanni Paolo II in Centesimus Annus, nell’anniversario della stessa Enciclica leoniana Rerum Novarum, allarmando sulla grave situazione di dissesto sociale provocata da un capitalismo eccessivamente spinto e senza regole, ma ancora nella sua fase embrionale, che oggi si manifesta quotidianamente nella speculazione di borsa, dimostrando con quanta facilità si può comprare e vendere denaro, anche allo scoperto, provocando catastrofi sociali e umani inimmaginabili, di cui lo stesso uomo è il reo colpevole.

Per cercare di tirare le fila del discorso e tessere una linea difensiva nella direzione della visione liberale dell’economia, i Governi degli Stati devono ispirarsi ai principi dei nostri padri, tornando ad occuparsi degli interessi collettivi, in una economia in cui i deficit eccessivi assorbono le risorse pubbliche, sottraendole dal mondo produttivo. Come osserva S. Zamagni, occorre riprendere nelle proprie mani l’idea del benessere comune, ritornare a quella che era l’economia liberale di ispirazione civile, di Genovesi, Verri, Palmieri, Broggia, e altri. Le politiche economiche di questi ultimi anni sono state, invece, lontane dalle logiche liberali, quando hanno imposto eccessive tasse senza crescita, dimostrandosi sorde davanti alle istanze di libertà e attente nell’ascolto del grido di aiuto che veniva dai pochi poteri forti del mondo capitalista. Oltre al pareggio di bilancio, compito dei governi è anche quello di stimolare la crescita economica e il benessere collettivo, attingendo dalle risorse di bilancio, che ogni buon padre di famiglia dovrebbe aver creato nei periodi floridi, per far fronte alle necessità improvvise, a quegli avvenimenti che non ti danno il preavviso. Era ed è sostanzialmente il pensiero economico che maturò e portò avanti nella sua battaglia liberale G. Fortunato, con lo sguardo sempre rivolto alla questione meridionale. Sul tema, lo stesso storico polemizzava che il denaro presente nelle ricche casse del Regno di Napoli, al momento dell’Unità italiana, era il segno evidente che la moneta non circolava abbastanza all’interno dello Stato, e l’economia ristagnava, in quanto gli investimenti erano piuttosto assenti nella politica borbonica dell’ultimo periodo. Risparmiare per investire: questa la ricetta proposta.

In merito alla grande turbolenza dei mercati, provocata dai deficit eccessivi dei Paese più industrializzati, dovrebbe aver insegnato a tutti una lezione importante, da riportare, in futuro, sui testi scolastici di economia, ossia che la politica del debito eccessivo alla fine non paga. O meglio, impostare le proprie scelte economiche su di un orizzonte temporale di breve periodo è sintomo di ignoranza, avrebbero detto Genovesi e gli altri, perché manca quella visione del futuro, ingrediente degli esseri savi. Messi alle strette, o si risana il bilancio o si rilancia la crescita, ma la seconda ha come base di appoggio importante il perseguimento del primo obiettivo. Si possono fare entrambe le cose, e pure bene. Tagliare la spesa superflua, i privilegi di pochi, che nel corso del tempo i fantomatici governi liberali hanno accumulato, e premiare quell’imprenditore, giovane e talentuoso, studioso, pieno di iniziativa, che reinveste il proprio guadagno generando produzione, lavoro e ricchezza, invece che assicurarsi rendite di posizione. In questo modo si generano a sua volta nuove entrate per le casse dello Stato, innescando un circolo virtuoso, sulla strada dell’equa distribuzione delle ricchezze. “La prima molla motrice dell’Arti, dell’opulenza, della felicità di ogni nazione, è il buon costume, e la virtù” (A. Genovesi). Le politiche dei governi rimarranno sempre all’ombra del futuro, prive di slancio e ricche di impedimenti e di interessi collusivi, fintantoché la loro funzione non sia orientata verso la riduzione delle diseguaglianze, combattendo le discriminazioni, per “liberare l’uomo dalle sue schiavitù”, rendendolo “capace di divenire lui stesso attore responsabile del suo miglioramento materiale, del suo progresso morale, dello svolgimento pieno del suo destino spirituale” (Paolo VI, 1967).

In conclusione, secondo il pensiero di S. Zamagni, il processo di accumulazione della ricchezza non è soltanto utile per far fronte alle esigenze future, come per esempio il periodo attuale caratterizzato dalla mancanza di una spinta economica da parte dei governi, per mancanza di risorse e per la presenza dei debiti di bilancio. Diventa essenziale, tale processo di accumulazione di ricchezza, inteso come atto doveroso di “responsabilità nei confronti delle generazioni future”: una parte del reddito deve essere destinata agli investimenti produttivi, che allargano la base produttiva, deve diventare modus operandi non solo delle economie private, ma anche di quelle pubbliche, secondo l’impostazione liberale dei devitiani, che dimostrarono come l’economia pubblica si muova con gli stessi strumenti in uso nell’economia privata: qui è l’originalità della Public Choice del premio Nobel Buchanan, riprendendo i principi di economia finanziaria che furono di Antonio De Viti De Marco. Allora si fa strada, tra i sempre più diffusi fallimenti del mercato e l’inefficienza dello Stato nell’appagamento dei bisogni, la terza via, ossia il terzo settore, con il suo forte attaccamento ai veri valori cristiani, fondamenta del bene comune, con i quali tante organizzazioni sociali, non governative, senza scopo di lucro quotidianamente operano sul mercato, nella società provata dalle ingiustizie sociali ed economiche, offrendo diversi beni e servizi che gli altri due settori non sono in grado di fornire, perché incapaci di penetrare nelle varie fasce sociali in cui è divisa la popolazione, a causa delle loro ferma attenzione verso la “privata felicità”. In questo, riveste una determinata importanza il pensiero di E. Berselli e di S. Zamagni, quando invocano un ritorno ai valori fondanti il cristianesimo, come l’amore per il sociale e per il bene comune, richiamati dal senso di solidarietà a livello nazionale ed internazionale, diffusi dalla Chiesa nell’opera pastorale dei suoi pastori, perché “si dimostra come uno dei principi basilari della concezione cristiana dell'organizzazione sociale e politica”. Per questo motivo è importante la ridefinizione della scala delle priorità nell’economia sociale, dando ampio spazio alla crescita umana inserita nel contesto di una situazione economica programmata per lo sviluppo collettivo, che sia durevole e sostenibile. Lo esortava, tra gli altri, il nostro G. Palmieri di Martignano, che contribuì pure lui, anticipando i tempi, ad innalzare l’Albero della libertà, “mostrando che la ricca linfa che sale dalla radice non si è esaurita col passare degli anni, ma è anzi diventata più feconda” (corsivo ripreso dalla Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II, Centesimus Annus, riferendosi alla Rereum Novarum di Leone XIII), per ritrovare la crescita economica lungo la strada della riscoperta della “pubblica felicità”.

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