di Michele Giovannetti
Grande spolvero ha in questi anni il tema dei prodotti tipici locali, come bene di consumo etico, solidale e sociale. Credo che non vi sia altro argomento ugualmente valido per definire il consumo alimentare come in questo caso, un linguaggio sociale. Dobbiamo però fare una distinzione fra il prodotto in sé, inteso solamente come bene di consumo al cui acquisto corrisponde un valore aggiunto per l’economia locale, e tutto l’insieme di relazioni espresse dalla sua ideazione, creazione e consumo. Commercializzando sul mercato estero un prodotto locale della cucina italiana, diventa evidente tutta l’immaterialità che emana per noi un salame, specie quando affettato e nel caso romagnolo, posto su una piadina. Viene da pensare, quanto sia sincretista, esportare un prodotto, il salame in questo caso, e quanto sia invece più ecumenico esportare un territorio, una tradizione come quella della piadina con il salame. Perché una cultura estera, nel secondo caso, non solo riceve dall’esterno un bene di consumo che entra a far parte del suo “melting pot”, quanto l’identità di un territorio, la mentalità dei suoi abitanti. Che non sono solo compagni, ovvero non spezzano solo il pane condividendolo fra loro, ma è dal loro sinecismo, cioè dalla loro scelta di “abitare insieme” e vivere in relazione, che hanno ideato qualcosa che superasse il gusto di una carne mista essiccata per la conservazione. Una frase di Gilbert K. Chesterton che sempre mi colpisce, è questa: “Togliete il Credo di Nicea, e farete uno strano torto ai venditori di salsicce”. Non vi è espressione più ironica e felice, per dimostrare come in realtà un prodotto abbia la propria peculiarità e derivi il proprio apprezzamento non soltanto dall’impressione gustativa che lascia ai sensi, ma quanto più dall’espressione di una cultura e tanto più da una religiosità condivisa. Basti pensare all’episodio delle nozze di Cana in cui i profumi del cibo salgono in cielo come una preghiera, e prima ancora, a tutte le tradizioni ebraiche legate al cibo e al suo valore di olocausto, insomma, come tutte le cose migliori il Cristo le abbia fatte a tavola.
Quindi, tornando al tema iniziale, l’acquisto di un prodotto tipico locale, non deve essere solo un gesto di filantropia e solidarietà sociale, quanto il presupposto per il riconoscimento, il conferimento di una identità e l’arricchimento personale. Apprezzare il cibo, e ancor di più un pasto, con le sue formulazioni tipiche di un luogo, significa assaggiare una cultura e trarne nutrimento: prima ancora che per il godimento o la sazietà della pancia, per lo spirito. Un esempio? Ce lo può portare Leo Moulin, sociologo dell’alimentazione quando pone a confronto la cucina polacca, italiana e tedesca senza doversi per forza gettare nell’esotismo alla moda della cucina orientale. Al minimalismo tedesco, si accompagna l’abbondanza polacca ed italiana, le cui culture, per quanto poco se ne sappia, sono storicamente molto legate.
Non so, se posso aver colpito nel segno, e se ho tramandato una giusta impressione di quanto il cibo e il suo consumo, specie a livello di tipicità, non sia una mera questione di individualismo e golosità. Però sono convinto che ciascuno sappia, come italiano soprattutto, che la pasta fatta in casa dalla nonna, senza tener conto da dove vengano le uova, sia sicuramente, sempre, il piatto migliore.
Nessun commento:
Posta un commento
Prima di lasciare un commento, controllare le istruzioni nella pagina: "Nuove Generazioni: fine e metodo"