domenica 30 ottobre 2011

Racconti_Amo il Lavoro. Work


“Inviti_Amo”… i singoli lavoratori, dall’operaio all’imprenditore, ad un percorso di riflessione su quello che ha investito la nostra società, capirne i cambiamenti che ha apportato, le vie da perseguire per un nuovo sviluppo, dove possibile, e le trasformazioni che l’attuale crisi ci chiama a compiere.

“Racconti_Amo”… un lavoro a misura d’uomo per recuperare la centralità della persona nel mondo lavorativo.

“Rifletti_Amo”… la speranza di cui il beato Giovanni Paolo II ha scritto nella sua Laborem Exercens e che trapela dalla dottrina sociale della Chiesa, il come farla nostra e le vie per perseguirla e tenerla sempre viva …

L'iniziativa è promossa da:
Ufficio Diocesano per la Pastorale Sociale
MLAC – Movimento Lavoratori di Azione Cattolica
ACLI
Progetto Policoro
GIOC-CML
Associazione Centro Studi Nuove Generazioni


Percorso di approfondimento sul tema del lavoro alla luce dell'attuale situazione socio economica, promosso dall'ufficio in collaborazione con altre associazioni.
L’invito è quello di far conoscere questo programma e di invitare alla massima partecipazione.
Sono una serie di incontri di approfondimento sul tema del lavoro, un tema importante ancor più in questo nostro tempo. Punto di partenza e di riferimento per la riflessione su questo tema è la Dottrina Sociale della Chiesa.
E' un momento molto importante di formazione per tutti noi.


Il programma:

3/11/2011
Impresa-economia-lavoro: le trasformazioni in atto nel mondo di oggi
Maurizio Drezzadore, Responsabile dipartimento del lavoro delle ACLI e membro del CNEL

17/11/2011
Il lavoro nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa
Don Renzo Gradara: Direttore della Caritas Diocesana e Docente di Morale Sociale presso ISSR di Rimini

15/12/2011
Un’impresa attenta al cambiamento: quali trasformazioni e quali prospettive cogliere dalla crisi che ci ha investito.
Marco Livia, Direttore IREF Roma (Istituto di Ricerca e Formazione) e formatore nazionale del Progetto Policoro

19/01/2012
“Giovani e lavoro tra presente e futuro” una tavola rotonda con ascolto di esperienze, riflessione e dibattito. Testimonianze dall’Italia:
Giuliano Sechi, ex operaio dell’azienda multinazionale petrolifera Vinyls di Porto Torres e alcuni giovani lavoratori ed universitari.

02/02/2012
Lavoro e famiglia: le sfide di oggi
Lorenza Rebuzzini, Ricercatrice del Centro Internazionale Studi Famiglia e Consulente progetti conciliazione famiglia e lavoro

E' importante farli conoscere ed invitare a partecipare.

Gli incontri si terranno alle ore 21:00 presso la sede della GiOC-CML in via Garibaldi 82, presso la Chiesa di S.Agnese.

L’anno 2011 vede celebrare l’anniversario di diversi documenti ed encicliche che hanno tracciato il cammino della Dottrina Sociale della Chiesa. La Dottrina Sociale della Chiesa ha avuto il suo inizio ufficiale con l’enciclica Rerum Novarum di Papa Leone XIII, pubblicata nel 1891, che affrontava la questione operaia e proletaria. A distanza di 90 anni, il Beato Giovanni Paolo II pubblicava l’enciclica Laborem Exercens, che segna un passaggio fondamentale nella riflessione sul lavoro. Le varie crisi economiche che si sono succedute in questi ultimi 40 anni, tra cui anche l’attuale, hanno sempre avuto forti ripercussioni negative sulla occupazione. Al centro della “questione sociale”, diceva Giovanni Paolo II, si trova il lavoro e in modo particolare la riflessione sull’uomo che lavora. In questi ultimo decennio la questione antropologica ha assunto, nella riflessione della Chiesa, una forte centralità. Su questa linea teologica anche quest’incontri hanno l’obiettivo di recuperare la centralità della persona umana nel mondo del lavoro, del lavoratore e di colui che fa impresa.


Impresa-economia-lavoro: le trasformazioni in atto nel mondo di oggi
Maurizio Drezzadore, Responsabile dipartimento del lavoro delle ACLI e membro del CNEL
3 novembre 2011 ore 21:00 presso la sala Cardijn GiOC (S.Agnese)


L'obiettivo di questo incontro è quello di cercare di capire la situazione sociale ed economica che oggi viviamo e vedere come rispondere alle trasformazioni in atto nel mondo del lavoro.

sabato 29 ottobre 2011

Un ritorno all'economia di mercato civile:
il perseguimento del bene comune

di Tommaso Manzillo
Dottore commercialista

Che la politica economica dei governi italiani degli ultimi anni abbia perso la bussola dei veri principi liberali si era già capito da un bel po’, anche durante le tante campagne elettorali, ma la confusione che sta imperversando per il varo della manovra economica, ancora in discussione, è la conferma di un vecchio modo di fare politica, più vicino ad interessi di una parte soltanto, più forte e determinante, piuttosto che al benessere collettivo. Le linee lungo le quali si sta muovendo il provvedimento sono fondate sull’ipocrisia, sull’insulto contro quelli che sono i veri principi ispiratori di uno Stato liberale, privandolo di un serio progetto industriale di crescita e di progresso, senza spirito innovatore che riporti il sistema verso lo sviluppo economico. Manca il coraggio del liberale! Quell’Albero della Libertà piantato nel bel mezzo della Rivoluzione napoletana, che per decenni ha prodotto e continua a produrre frutti succulenti, da noi oggi cresce su di un terreno arido, che abbisogna di nuova linfa e di essere innaffiato da quell’acqua limpida che sgorga dalle sorgenti liberali che erano dei nostri padri.

I debiti eccessivi nei bilanci degli Stati, sono certamente frutto di miope scelte del passato, lontane anni luce dalle logiche liberali, improntate sulla crescita generale e della collettività, piuttosto che ispirate da interessi personali, locali, di partito, che hanno prodotto disavanzi esorbitanti. Questa situazione è sicuramente di ostacolo a quelle politiche di cui oggi necessita il sistema, per superare l’attuale fase congiunturale. Come hanno evidenziato studiosi ed economisti, purtroppo, l’indebitamento eccessivo è sempre seguito da almeno un decennio di bassa crescita, in cui i consumi e gli investimenti ristagnano mentre la disoccupazione aumenta. Tutto questo porta ad un ulteriore rallentamento dell’economia e, di conseguenza, ulteriori difficoltà per la copertura del debito. Ed è in questa fase che servono risorse vere per ridare ossigeno al mondo economico, stimolando la produzione ed il lavoro, premiando tutte quelle iniziative che vanno in questa direzione, risorse che non devono essere viste come spese, piuttosto come investimenti per il futuro: pensiamo alle famiglie, alle imprese, alla scuola, alla sanità, alla ricerca scientifica ed universitaria. Nel pensiero dell’abate A. Genovesi, “il fine dell’economia civile, siccome è più di una volta detto, è: I. l’aumentazione del popolo; II. La di lui ricchezza; III. La sua naturale e civile felicità; IV. E con ciò la grandezza, gloria, e felicità del Sovrano”.

L’attività politica-amministrativa dei governi degli ultimi venti anni, almeno, è stata caratterizzata dalla mancanza, come hanno sottolineato numerosi economisti negli anni addietro, di quel modo di agire tipico del “buon padre di famiglia”, perché durante gli anni delle cosiddette “vacche grasse”, ossia la crescita, occorreva approntare tutte quelle riforme che liberassero l’economia da lacci e impedimenti di ogni sorta, per la riforma fiscale e previdenziale, la giustizia, il welfare e altro ancora, creando quegli avanzi di bilancio, linfa indispensabile cui attingere durante il periodo delle “vacche magre”, ossia la depressione. Già nel 1967 Paolo VI esortava i governi perché “lo sviluppo esige trasformazioni audaci, profondamente innovatrici. Riforme urgenti devono essere intraprese senza indugio. A ciascuno l'assumersi generosamente la sua parte, soprattutto a quelli che per la loro educazione, la loro situazione, il loro potere si trovano ad avere grandi possibilità d'azione”. Purtroppo, i provvedimenti di riparazione vengono sempre adottati a ridosso delle catastrofi. Risorse generate dal risparmio, come diverse volte esortava dagli scranni parlamentari G. Fortunato, per incentivare gli investimenti e la crescita, perché la produzione genera ricchezza e quindi lavoro, non le rendite di capitale, che contribuiscono alla propagazione della speculazione. Ma rimase “voce di uno che grida nel deserto” (Mc 1, 1-3)! E il debito divenne zavorra!...

Nella logica del raggiungimento del bene comune, riprendendo le ultime parole di De Viti De Marco, obiettivo che fu dell’economia di mercato civile, snodo cruciale diventa la riduzione delle diseguaglianze sociali, economiche, politiche, civili, perché il progresso possa raggiungere ogni fascia della popolazione e non restare a vantaggio dei soliti pochi privilegiati. In questo senso, vi è un interessante lavoro del premio Nobel per l’Economia nel 1998, Amartya K. Sen, dal titolo La diseguaglianza (2000), in cui l’economista va all’affannosa ricerca di una risposta alla domanda “diseguaglianza di che cosa?”. In particolare, nelle sue meditazioni mette subito in evidenza come il tema della diseguaglianza affonda le sue radici nella sostanziale differenza interpersonale, basata sul sesso, sull’età, sulle capacità fisiche, sul carattere e le sue determinazioni psicologiche e altro ancora. In questo, una equa distribuzione del reddito, ispirata da politiche tese a ridurre e a combattere la forte differenza nel tessuto sociale, potrebbe portare a profonde diseguaglianze dovute alle diversità personali, al diverso approccio e nella diversa capacità dell’individuo di trasformare le risorse e i mezzi a disposizione in appagamento dei bisogni, soprattutto per il differente livello di libertà di cui ogni uomo può godere. Diviene, a questo punto, riduttivo pensare alla diseguaglianza, e quindi anche alla povertà, soltanto in termini di reddito e di reddito minimo di sussistenza, quando è presente una molteplicità di fattori che possono influenzare la diseguaglianza. Paolo VI parlava dello “scandalo di disuguaglianze clamorose, non solo nel godimento dei beni, ma più ancora nell'esercizio del potere”. Con l’affacciarsi dell’attuale pesante congiuntura economica, le diseguaglianze stanno divenendo sempre più croniche e sanabili con molta difficoltà, come è stato riconosciuto da Benedetto XVI nella Sua Lettera Enciclica Caritas in Veritate (2009), denunciando l’“erosione del 'capitale sociale', ossia di quell’insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili ad ogni convivenza civile”. Il lassismo da parte delle pubbliche istituzioni abilitate al controllo dei sistemi economici, a cui abbiamo assistito prima della crisi del 2008, sono state le principali artefici del degrado sociale in cui oggi versa l’uomo, vittima del suo stesso operare affannoso, alla ricerca del facile guadagno nell’ottica del breve periodo, piuttosto che mirare alle prospettive future: colpevole di miopia e causa dei suoi stessi mali. E. Berselli afferma che “la grande recessione non è semplicemente una questione tecnica e di regole, né soltanto di autorità deficitarie nel controllo, bensì è un problema anche questo 'totale' di distribuzione fallimentare della ricchezza a vantaggio dei ricchi e a sfavore dei poveri” (2010). Il tema della diseguaglianza è stata affrontata agli albori dell’era industriale nell’Europa continentale, da Leone XIII e ripresa da Giovanni Paolo II in Centesimus Annus, nell’anniversario della stessa Enciclica leoniana Rerum Novarum, allarmando sulla grave situazione di dissesto sociale provocata da un capitalismo eccessivamente spinto e senza regole, ma ancora nella sua fase embrionale, che oggi si manifesta quotidianamente nella speculazione di borsa, dimostrando con quanta facilità si può comprare e vendere denaro, anche allo scoperto, provocando catastrofi sociali e umani inimmaginabili, di cui lo stesso uomo è il reo colpevole.

Per cercare di tirare le fila del discorso e tessere una linea difensiva nella direzione della visione liberale dell’economia, i Governi degli Stati devono ispirarsi ai principi dei nostri padri, tornando ad occuparsi degli interessi collettivi, in una economia in cui i deficit eccessivi assorbono le risorse pubbliche, sottraendole dal mondo produttivo. Come osserva S. Zamagni, occorre riprendere nelle proprie mani l’idea del benessere comune, ritornare a quella che era l’economia liberale di ispirazione civile, di Genovesi, Verri, Palmieri, Broggia, e altri. Le politiche economiche di questi ultimi anni sono state, invece, lontane dalle logiche liberali, quando hanno imposto eccessive tasse senza crescita, dimostrandosi sorde davanti alle istanze di libertà e attente nell’ascolto del grido di aiuto che veniva dai pochi poteri forti del mondo capitalista. Oltre al pareggio di bilancio, compito dei governi è anche quello di stimolare la crescita economica e il benessere collettivo, attingendo dalle risorse di bilancio, che ogni buon padre di famiglia dovrebbe aver creato nei periodi floridi, per far fronte alle necessità improvvise, a quegli avvenimenti che non ti danno il preavviso. Era ed è sostanzialmente il pensiero economico che maturò e portò avanti nella sua battaglia liberale G. Fortunato, con lo sguardo sempre rivolto alla questione meridionale. Sul tema, lo stesso storico polemizzava che il denaro presente nelle ricche casse del Regno di Napoli, al momento dell’Unità italiana, era il segno evidente che la moneta non circolava abbastanza all’interno dello Stato, e l’economia ristagnava, in quanto gli investimenti erano piuttosto assenti nella politica borbonica dell’ultimo periodo. Risparmiare per investire: questa la ricetta proposta.

In merito alla grande turbolenza dei mercati, provocata dai deficit eccessivi dei Paese più industrializzati, dovrebbe aver insegnato a tutti una lezione importante, da riportare, in futuro, sui testi scolastici di economia, ossia che la politica del debito eccessivo alla fine non paga. O meglio, impostare le proprie scelte economiche su di un orizzonte temporale di breve periodo è sintomo di ignoranza, avrebbero detto Genovesi e gli altri, perché manca quella visione del futuro, ingrediente degli esseri savi. Messi alle strette, o si risana il bilancio o si rilancia la crescita, ma la seconda ha come base di appoggio importante il perseguimento del primo obiettivo. Si possono fare entrambe le cose, e pure bene. Tagliare la spesa superflua, i privilegi di pochi, che nel corso del tempo i fantomatici governi liberali hanno accumulato, e premiare quell’imprenditore, giovane e talentuoso, studioso, pieno di iniziativa, che reinveste il proprio guadagno generando produzione, lavoro e ricchezza, invece che assicurarsi rendite di posizione. In questo modo si generano a sua volta nuove entrate per le casse dello Stato, innescando un circolo virtuoso, sulla strada dell’equa distribuzione delle ricchezze. “La prima molla motrice dell’Arti, dell’opulenza, della felicità di ogni nazione, è il buon costume, e la virtù” (A. Genovesi). Le politiche dei governi rimarranno sempre all’ombra del futuro, prive di slancio e ricche di impedimenti e di interessi collusivi, fintantoché la loro funzione non sia orientata verso la riduzione delle diseguaglianze, combattendo le discriminazioni, per “liberare l’uomo dalle sue schiavitù”, rendendolo “capace di divenire lui stesso attore responsabile del suo miglioramento materiale, del suo progresso morale, dello svolgimento pieno del suo destino spirituale” (Paolo VI, 1967).

In conclusione, secondo il pensiero di S. Zamagni, il processo di accumulazione della ricchezza non è soltanto utile per far fronte alle esigenze future, come per esempio il periodo attuale caratterizzato dalla mancanza di una spinta economica da parte dei governi, per mancanza di risorse e per la presenza dei debiti di bilancio. Diventa essenziale, tale processo di accumulazione di ricchezza, inteso come atto doveroso di “responsabilità nei confronti delle generazioni future”: una parte del reddito deve essere destinata agli investimenti produttivi, che allargano la base produttiva, deve diventare modus operandi non solo delle economie private, ma anche di quelle pubbliche, secondo l’impostazione liberale dei devitiani, che dimostrarono come l’economia pubblica si muova con gli stessi strumenti in uso nell’economia privata: qui è l’originalità della Public Choice del premio Nobel Buchanan, riprendendo i principi di economia finanziaria che furono di Antonio De Viti De Marco. Allora si fa strada, tra i sempre più diffusi fallimenti del mercato e l’inefficienza dello Stato nell’appagamento dei bisogni, la terza via, ossia il terzo settore, con il suo forte attaccamento ai veri valori cristiani, fondamenta del bene comune, con i quali tante organizzazioni sociali, non governative, senza scopo di lucro quotidianamente operano sul mercato, nella società provata dalle ingiustizie sociali ed economiche, offrendo diversi beni e servizi che gli altri due settori non sono in grado di fornire, perché incapaci di penetrare nelle varie fasce sociali in cui è divisa la popolazione, a causa delle loro ferma attenzione verso la “privata felicità”. In questo, riveste una determinata importanza il pensiero di E. Berselli e di S. Zamagni, quando invocano un ritorno ai valori fondanti il cristianesimo, come l’amore per il sociale e per il bene comune, richiamati dal senso di solidarietà a livello nazionale ed internazionale, diffusi dalla Chiesa nell’opera pastorale dei suoi pastori, perché “si dimostra come uno dei principi basilari della concezione cristiana dell'organizzazione sociale e politica”. Per questo motivo è importante la ridefinizione della scala delle priorità nell’economia sociale, dando ampio spazio alla crescita umana inserita nel contesto di una situazione economica programmata per lo sviluppo collettivo, che sia durevole e sostenibile. Lo esortava, tra gli altri, il nostro G. Palmieri di Martignano, che contribuì pure lui, anticipando i tempi, ad innalzare l’Albero della libertà, “mostrando che la ricca linfa che sale dalla radice non si è esaurita col passare degli anni, ma è anzi diventata più feconda” (corsivo ripreso dalla Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II, Centesimus Annus, riferendosi alla Rereum Novarum di Leone XIII), per ritrovare la crescita economica lungo la strada della riscoperta della “pubblica felicità”.

venerdì 28 ottobre 2011

Anche il Congresso Eucaristico sprona i cattolici ad impegnarsi nel sociale

di Luigi Bottazzi
Presidente del Circolo G. Toniolo di Reggio Emilia

Mando un articolo pubblicato sul settimanale diocesano la Libertà sul Congresso Eucaristico Nazionale

Agli osservatori più attenti di questo grande evento ecclesiale, il Congresso Eucaristico Nazionale (CEN) nella sua XXV edizione dal titolo emblematico “Signore, da chi andremo?”, non è sfuggito il fatto, di grande valore simbolico, che si teneva in un area, in parte dismessa, del porto di Ancona, di proprietà della Fincantieri, azienda in grave difficoltà economiche per la carenza di nuove commesse, che ha in uscita oltre 550 lavoratori cassintegrati che hanno davanti la disperata situazione di rimanere disoccupati per lungo tempo.
Questa nostra carrellata sul CEN, certamente non esaustiva (e forse troppo sbilanciata verso il sociale!), non possiamo non concluderla con alcuni punti “strategici “, si dice spesso così oggi, dell’insegnamento che ci ha donato il Papa nella giornata finale ad Ancona.
Occorre impegnarsi per “restituire dignità ai giorni dell’uomo e quindi al suo lavoro, nella ricerca della sua conciliazione con i tempi della festa e della famiglia e nell’impegno a superare l’incertezza del precariato e il problema della disoccupazione”.
“Cari amici – ha detto agli oltre 100 mila fedeli presenti – ripartiamo da questa terra marchigiana con la forza dell’Eucaristia in una costante osmosi tra il mistero che celebriamo e gli ambiti del nostro quotidiano”.

domenica 23 ottobre 2011

Scout: al passo con i tempi

di Romano Nicolini

Dal 27 luglio al 7 agosto 2011 si è svolto a Rinkaby, in Svezia, il 22° Jamboree mondiale dello scoutismo. La parola jamboree viene dall'inglese: jam, marmellata. Quando il fondatore Baden Powell (detto BP) lo indisse per la prima volta nel 1920, gli diede questo appellativo poiché, affermò, «deve essere come una marmellata di ragazzi che si ritrovano in allegria».
La sua fu un'intuizione profetica poiché in quel momento stava montando la marea mefitica del razzismo: chiedere di fraternizzare a ragazzi di tutte le razze, nel periodo storico in cui l'impero britannico trionfava su ogni fronte, era davvero una scelta coraggiosa. Aiutato dalla fede (era figlio di un pastore anglicano), Baden Powell ebbe un coraggio veramente unico. Da quella volta i Jamborees si sono susseguiti con ritmo costante ogni quattro anni: in ogni adunata (l'ho visto di persona) sono caduti steccati e barriere: fra bianchi e neri sudafricani, tra musulmani ed ebrei, tra indiani e pakistani... Un vero trionfo!
Lo scoutismo cattolico. A motivo della sua origine protestante e per il timore di una visione panteista della realtà, dapprima lo scoutismo fu visto con diffidenza nel mondo cattolico. Stranamente, i più fieri sostenitori della sua scelta metodologica portata avanti da educatori non-chierici furono proprio i sacerdoti che sostennero il fondatore, il conte Mario di Carpegna (1856-1924). Il cardinale Bagnasco è stato assistente ecclesiastico scout per la regione Liguria: si inserisce nella lunga lista dei porporati amici come, per esempio, il cardinale Pignedoli, Baggio, ecc. E poi le cose si sono chiarite: l'immersione nella natura non era vista come una dispersione dei valori, ma come un aggancio alle radici della fede: Gesù non appare mai distaccato dal vissuto esistenziale del suo popolo.
Oggi la collaborazione fra Chiesa cattolica e Agesci (Associazione guide e scout cattolici italiani) e Fse (Federazione scout d'Europa: riconosciuti dalla Cei nel 1998) è del tutto consolidata e tranquilla. L'unica remora è talora, per noi preti, la metodologia "scautese" che rimane ostica e che non sempre è facilmente comprensibile: Co.Ca. (Comunità Capi), Branca L/C (Lupetti-Coccinelle: 8-11 anni), Branca G/E (Guide- Esploratori: 12-15 anni), Noviziato (16 anni), Branca R/S (Clan: 17-21 anni), Partenza, ecc. Se si aggiunge una sorta d'incomunicabilità dovuta all'uniforme, ai termini stranieri, alla voglia di evadere... non sempre i rapporti fra parrocchia e gruppo scout sono idilliaci.
L'immersione nella natura
non era vista come una dispersione dei valori,
ma come un aggancio alle radici della fede.
Tuttavia... vale la pena investire molte energie nello scoutismo. Questi i motivi:
1. È un metodo attivo che riesce a trattenere i giovani proprio quando la nostra catechesi è più affannata: si pensi al dopo-cresima.
2. È un metodo educativo che si rivolge alla globalità della persona. Uno dei motivi delle crisi familiari è da ricercare anche nell'insofferenza nei confronti del sacrificio. Nello scoutismo i momenti duri abbondano, se non altro quando i ragazzi devono costruire una città-di-tende ogni volta che campeggiano.
3. La catechesi torna ad essere risonanza di qualcosa che si vive: katàechein, fare eco, risuonare. Esempi: una veglia sulla spiaggia dopo aver letto la chiamata degli apostoli; la tempesta sedata mentre si rema davvero su una barca; il cibo cotto e mangiato dopo aver riflettuto sulla cena di Betania; l'invito ad Abramo di contare le stelle mentre si è distesi su un prato nel bosco più buio; la sollecitazione di Gesù a imparare dagli uccelli del cielo mentre si è raccolti in silenzio nel fitto degli alberi; Elia che resiste alla sete nel deserto mentre si cammina in una zona desolata; il brano in cui Gesù dichiara di non avere una pietra dove posare il capo quando si arriva a un certo punto e non si sa dove fermarsi...
4. Il raccordo con la parrocchia (punctum dolens in molti casi) non è impossibile: basta concordare con anticipo le modalità e non pretendere una disponibilità estemporanea. Oggi la vita di tutti, ragazzi e adulti, è programmata quasi al minuto: non è corretto inventare impegni subitanei in nome di una disponibilità offerta e talora meritata.
5. Un cenno sugli adulti. Quasi sempre, dopo la Partenza (21 anni) gli scouts mettono a disposizione le loro capacità sia in campo educativo (oratorio, catechismo, scoutismo) sia in ambito sociale (quartieri, partiti, associazioni). Generalmente chi proviene dallo scoutismo dà di sé una buona prova di affidabilità. In ogni caso, se si dà avvio anche alla metodologia Masci (Movimento adulti scout cattolici italiani), abbastanza spesso i genitori rispondono positivamente e prendono gusto a sperimentare su di sé lo scoutismo fino al punto di chiedere di dare la Promessa scout e farsi carico gioioso del motto ufficiale, che è: "Servire".
Don Romano Nicolini
Conclusione: Dopo 45 anni ininterrotti di servizio come assistente ecclesiastico nello scoutismo, posso dire con soddisfazione di aver trovato un metodo che mi ha aiutato a vivere con entusiasmo il mio sacerdozio e mi ha permesso di vedere molti frutti.



Commento di Carlo Pantaleo
Presidente Associazione Centro Studi Nuove Generazioni
Ringrazio di cuore Don Romano per aver condiviso una sintesi e proposta di un'intera vita da scout.
Il metodo scout, orientato a fare delle cose buone e giuste, educa contemporaneamente se stessi formando la persona a prendere con serietà e consapevolezza la vita e le scelte delle proprie azioni.
Poche righe quelle di Romano ma essenziali perché veramente permettono di andare al cuore dell'esperienza, e se l'esperienza non è comunicabile nel suo essere, tale non sarebbe. Non è il fare esperienza che forma l'uomo, ma l'essenza di esse ricondotte all'unità della coscienza di esse stesse, ovvero a come ci si pone davanti alla realtà: accettandola o negandola. Dalla prima scelta ne discendono due conseguenze: o l'adeguarsi al mondo diventando o servi o padroni, oppure esser protagonisti con gli altri. Nella seconda scelta il risultati sono o l'utopia irraggiungibile o la maledizione di tutto quello che accade. Nelle parole dell'articolo di Don Romano ci siamo dentro tutti ed è un articolo che ci insegna a vedere come un granello può germogliare divenendo un albero robusto ed enorme quale è tutto lo scoutismo, addirittura anche con chi crede di non credere o di altre religioni. Si vede come è cambiata la percezione all'esterno di quell'esperienza anticipando o riconducendo ad elementi essenziali la fede stessa che sgorga da un incontro con una persona e non da una ripetizione di atti esterni. Lungo questa storia dello scoutismo così amabilmente tracciata, si riscontra una proposta formidabile per una formazione permanente che vada oltre la partenza, senza ridurne in nulla il significato profondo, ma al tempo stesso offrendo il sostegno necessario al discernimento e un gruppo necessario a non esser tanti singoli che poi si lasciano vincere dal mondo. Itinerari formativi comunitari dopo la partenza, contiene in sé una proposta generativa di uno scoutismo che prende coscienza di se stesso e impara dai propri limiti, e inoltre rimanda alla quotidianità di un impegno per tutta la vita ma dentro ogni giorno, come lo è l'eucarestia: mai semplice ricordo con nostalgia di momenti intensi, ma esperienza che si rende presente, si rinnova e si comunica ogni volta generando la Chiesa, popolo di Dio in cammino, Corpo di Cristo, ma anche che necessita di essa stessa. Troviamo questa stessa interdipendenza fra l’Eucarestia e la Chiesa nella Didachè o Dottrina dei dodici apostoli verso la fine del I secolo: “Come questo pane spezzato era disperso sui monti e, raccolto, è diventato uno, così la tua Chiesa sia raccolta dalle estremità della terra nel tuo Regno”. Giovanni Paolo II ha riconosciuto nella sua enciclica pienamente che l’Eucarestia edifica la Chiesa. “Possiamo dire che non soltanto ciascuno di noi riceve Cristo, ma che anche Cristo riceve ciascuno di noi. Egli stringe la sua amicizia con noi". “Da ciò ne consegue che la Chiesa deve costantemente conformarsi all’Eucarestia e al suo senso più essenziale – che è il sacrificio di Cristo – più che l’Eucarestia conformarsi alla Chiesa. Le due cose, chiaramente, non si oppongono, ma stabilire la precedenza di un aspetto sull’altro è, soprattutto in questo caso e nel nostro tempo, di importanza vitale”. "Nondimeno la Liturgia è il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, insieme la fonte da cui promana tutta la sua virtù" (Sacrosantum Concilium, 10). Giuseppe Dossetti affermava di "non celebrare, ma vivere", che tradotto significa celebrare Cristo ogni giorno con tutta la vita, vivendo intensamente questa vita che ci viene incontro, affinché il Volto di Cristo sia formato in noi.

Commento di Gabriele Paganelli
Responsabile Area Famiglia e Educazione Associazione Centro Studi Nuove Generazioni
Bravo il nostro don Romano: un articolo chiaro, semplice che fa bene il punto sulle ricchezze che ha offerto alla società prevalentemente razzista di quei tempi e quindi sulle difficoltà incontrate storicamente nell’affermazione dello scoutismo all’interno della Chiesa cattolica, poi prende in considerazione la validità del metodo educativo, e ritorna sulla fatica di convivere in modo fecondo ed accogliente all’interno della parrocchia. Poi si illumina nel finale evidenziando le concrete possibilità di germogliare vita a partire dallo scoutismo. Una nota al riferimento di don Romano al sacrificio: è centrale un’educazione al sacrificio e condivido la difficoltà a proporlo a partire dall’ambito familiare, dove, il padre, che sarebbe intrinsecamente deputato a questo tipo di educazione, non ne è spesso all’altezza, perché fa fatica lui stesso a proporsela per sé. Ma su questo punto mi propongo di tornare fra qualche giorno, quando parlerò di "Cosa tiene accese le stelle" di Mario Calabresi. Tornando al tema principale, in particolare vorrei concentrarmi sui motivi.
Trovo un intelligente elemento catalizzatore, che attira, coinvolgendo profondamente i ragazzi in un percorso educativamente ben strutturato e non improvvisato oltre alla cresima: decisamente un successo che, come osservava opportunamente don Romano, è piuttosto infrequente presso le altre proposte educative e formative. Una preponderante fetta di partecipazione infatti viene a mancare, sono la maggioranza i ragazzi che preferiscono non proseguire perché probabilmente non vedono nella comunità educante un valido aiuto e un efficace riferimento o, più semplicemente, non sono allenati a ricercare bellezza, a quella sete di verità, di felicità, che li motiva a cercare Colui che quella sete riesce a soddisfare. Non che l’insistenza da parte dello scoutismo su questo punto sia evidente e precipua, però trovo che la forza di questo movimento risieda nella spinta verso l’operosità, la scoperta, l’esplorazione (è questo il significato del termine scout), la conoscenza attraverso l’azione, attraverso l’esperienza attiva, e quindi quello scout è un metodo attivo che tende a sviluppare la fiducia e l’autostima del ragazzo incoraggiandone la scoperta delle proprie risorse e dei propri limiti, stimolandone quindi l’intraprendenza. E’ un’educazione al viaggio (in senso letterale e metaforico), alla trasformazione della coscienza, infatti una delle parole chiave per definire questo percorso è strada. In modo particolare poi è da sottolineare l’attenta programmazione (mai rigidamente definita, ma pur sempre flessibile a seconda dei ragazzi che partecipano!) che viene pensata da adulti educatori che hanno a cuore la crescita non solo spirituale, ma anche fisica/sportiva, socio-relazionale (che significa anche una particolare attenzione al tuo compagno di sestiglia, di squadriglia, di clan…), pratica (nel senso di una sorta di educazione al lavoro manuale e questa comprende anche un’attenzione ai materiali a disposizione, alle risorse ambientali; inoltre c’è il messaggio fondamentale che se vuoi ottenere qualcosa devi lavorare, fare fatica, usare il tuo ingegno e i tuoi talenti), un’educazione alla responsabilità verso i più piccoli (attraverso il sistema adottato in reparto in cui bambini più grandi vengono educati ad avere uno sguardo più attento verso i più piccoli), un’educazione alla gratitudine e alla sensibilità più spiccata verso i doni che Dio ci elargisce attraverso lo stupore della natura (non soltanto limitata ai giorni del campeggio o della route), una valorizzazione dei rapporti umani anche con persone estranee, anzi, di più, direi una vera e propria simpatia verso il prossimo (sto pensando a quei momenti che la vita immersi nella natura, quasi all’avventura, possa portare più facilmente a relazionarsi con persone presenti nel luogo in cui ti trovi, anche fosse soltanto per chiedere un’indicazione), un’educazione alla fatica e alla condivisione della fatica durante le camminate, un educazione al servizio, che si concretizza nell’offrire tempo, energia, sudore, passione per qualcuno, bambino, anziano, sofferente o gaudente che sia…
Una nota particolare la vorrei spendere sul punto fede, sulla spiritualità. Trovo davvero interessante il tipo di catechesi che viene proposta, che trovo di immediata accoglienza, ricca di riferimenti presenti, vivi, attuali e facilmente incarnabili. Il grande pericolo di oggi per la fede è che essa rimanga un’esperienza di tipo sentimentale, passeggera, emozionale, un’adesione di cuore: mi piace credere, mi sento di credere, oggi mi va, ma sì facciamo che esista, almeno per ora… e via di questo andazzo. Ora Uno che ha dato la vita al posto mio, Uno che ha perso la testa e il sangue per me, per me così fragile e peccatore, non è che oggi c’è e mi abbraccia e domani chissà… Non ci abbandona ed è fedele nel suo amore misericordioso. Tutti i movimenti nel comunicare la fede ai giovani hanno particolare attenzione su questo punto e però esistono movimenti – gli scout non sono fra questi – che esasperano l’emozionalità come approccio privilegiato alla fede. Il fatto che oggi il principio di piacere domini sul principio di realtà non è una buona scusa per non credere che ognuno di noi è vivo con un cuore certo, ma anche con una testa certa. E quindi entra in gioco la questione della ragionevolezza nell’esperienza di fede, ragionevolezza che costituisce un aspetto determinante. Se non ritenevano ragionevole credere i primi cristiani perché mai avrebbero scelto di farsi ammazzare? Per un Dio imprevedibile e distante? La ragionevolezza consisteva nel fatto che vedevano compiersi in Gesù l’attesa che li animava nelle loro faccende quotidiane. Cosa attendevano? Cosa cercavano, desideravano? Desideravano dei rapporti incentrati sulla lealtà, desideravano vivere nella verità invece che nella falsità, desideravano l’esperienza del perdono invece che della vendetta, desideravano un gesto di amore e gratuità invece che indifferenza, egoismo, desideravano cordialità e gratitudine invece che viltà. Tutto questo era per loro una vita auspicabile, desiderabile e quindi era ragionevole affermare l’adesione a questo regno, così ragionevole e così corrispondente alla loro sete di felicità che arrivavano a dare la vita. Pur di affermare che a queste beatitudini Gesù li aveva chiamati, pur di rimanere fedeli a questa chiamata di felicità, pur di testimoniare la fede in un Dio così infinitamente bello erano disposti a lasciarsi ammazzare.
E’ a questa fede che anche lo scoutismo chiama, è a questa fede che lo scoutismo, essendo realtà ecclesiale, tiene e vuole proporre e quindi ci credo bene che don Romano ha visto molti frutti in questa… strada e che vale la pena investire nello scoutismo!

Commento di Gabriele Bernabini
Associazione Centro Studi Nuove Generazioni
È sempre bello vedere come a volte trovi le parole, per esprimere che ciò che stai facendo è buono. Don Romano ha esplicitato uno dei tanti aspetti per cui lo è lo scoutismo, perché oltre al lato educativo ha dei risvolti incontrovertibili e difficilmente non condivisibili sulla società, per la quale risulta una proposta sempre costruttiva e mai distruttiva.
In realtà non ho capito molto bene che taglio della discussione sugli scout, nel senso di: vogliamo parlare dell'effetto che ha sui giovani? Oppure per il valore che ha oggi l'associazione? Di come la proposta ha una vocazione strutturale per aiutare le situazioni disagiate? Piuttosto che del valore che ha come comunità di riferimento localmente radicata?
Gli spunti sono molteplici, basta capire in che direzione vogliamo parlare della cosa, dalla Fede come ha sottolineato Tiger, al valore dello stare assieme.
Ovviamente Gabri non posso che condividere la relazione che hai fatto, e per la quale ti ringrazio: molto equilibrata come osservatore esterno, ma che approfondisce correttamente nel merito. L'interpretazione è quella giusta, di un associazionismo che include, e non esclusivo, come è stata per me fino ad ora l'esperienza di essere orgogliosamente uno scout, per ciò che comporta, e non solo per l'attenzione alla signora che non riesce ad attraversare la strada. Come il mercatino ha reso possibile una relativamente piccola sinergia ed incontro, sarebbe una cosa veramente avanti intraprendere un percorso per unire tutti i movimenti sotto l'unica Fede che li unirebbe, un percorso che crei le relazioni tra i giovani che ne fanno parte, perché sono presente e futuro dell'associazionismo.
Manca purtroppo la consapevolezza dei membri che ne fanno parte, perché presuppone un'alta visione non solo del tuo agire, ma di te come parte attiva di un'associazione che vive nella città e che quindi con le sue scelte fa o meno una cosa... è un gradino che non molti raggiungono, o perché non vivono fino in fondo ciò che gli viene proposto, e non secondariamente, perché le associazioni non pensano certo a promuovere ciò, almeno non direttamente, quindi se la vita associativa non include percorsi di incontro con le altre realtà associative (altre esperienze di vita nella propria città, condivisioni, spunti per agire, relazioni interpersonali), il percorso dev'essere stimolato dall'esterno.

mercoledì 19 ottobre 2011

Speciale Giuseppe Fanin 2009

a cura di Floriano Roncarati
Collaboratore a diverse testate giornalistiche, è componente dell’Ufficio Stampa della FID; conduce dagli Studi dell’emittente “Ciao Radio” di Bologna la trasmissione sportiva “Fari puntati su…” e cura una rubrica di motorismo, è membro dell’”Osservatorio regionale sull’associazionismo di promozione sociale” della Regione Emilia – Romagna ed è componente della “Lega Pensionati Cisl San Vitale – Bologna”

VIII Festa della Storia Mercoledì 19 ottobre 2011 ore 16/19 – Cappella Farnese (Palazzo d’Accursio – Bologna)
Uomini Liberi nella coscienza nazionale

Il caso Fanin e i conflitti del dopoguerra nelle campagne bolognesi
All’interno dell’VIII° Festa della Storia, il Liceo Scientifico “E.Fermi” organizza il convegno “Il caso Fanin e i conflitti del dopoguerra nelle campagne bolognesi” mercoledì 19 ottobre alle ore 16 presso la Cappella Farnese. Il Convegno intende approfondire il tema del 3° Concorso Nazionale “Uomini Liberi nella coscienza nazionale. Dalla guerra alla Repubblica (1940/1948)”, rivolto alle scuole secondarie superiori. Il Concorso invita le scuole a raccogliere, nella pluralità delle memorie di questi anni caratterizzati da un forte impegno della società civile, la testimonianza degli Uomini Liberi, le cui azioni hanno reso possibile la ricostruzione del tessuto sociale lacerato dalla guerra e dai conflitti del dopoguerra. Gli avvenimenti del 1948 nella provincia di Bologna hanno avuto un’importanza nazionale e Giuseppe Fanin ne è uno dei protagonisti.
Al Convegno sono stati invitati a parlare studiosi, quali Alessandro Albertazzi e Marco Poli, e soprattutto importanti testimoni, ossia Giovanni Bersani e Giorgio Stupazzoni. Sul sito il programma dettagliato (www.storiamemoria.it).

Finita la guerra, l’Italia era un paese fatto di macerie, teatro di una guerra mondiale e di una guerra civile. Se nelle città buona parte delle abitazioni era andata distrutta, le operazioni belliche avevano investito, nella primavera del ’45, le aree agricole più intensamente e modernamente coltivate. E fu l’agricoltura a essere al centro di aspri e ampi conflitti sociali. Le lotte sindacali, infatti, si svolsero spesso nelle campagne, settore che assorbiva circa il 45%-50% degli occupati.
Il 3 giugno 1944, prima della conclusione del conflitto mondiale, venne costituita a Roma da Grandi, Buozzi e Di Vittorio la Confederazione Generale del Lavoro, unica confederazione generale italiana del lavoro. La GCIL a Bologna e in Emilia Romagna ebbe subito, ad opera soprattutto dei comunisti, il nucleo numerico e organizzativo più forte. Bologna fu, in un certo senso, specialmente negli anni 1945/1946, la capitale sindacale del Paese.
La Federterra era la federazione più importante, sia sul piano quantitativo, che su quello sociale, perché la questione agraria era allora uno dei maggiori problemi.
Ma la convivenza tra le diverse componenti all’interno del sindacato fu, specialmente a Bologna, molto difficile. Dopo l’esclusione dei comunisti dal governo nel maggio 1947, nell’autunno-inverno di quello stesso anno un’ondata di scioperi investì il mondo del lavoro. Il 18 aprile 1948 si svolsero le prime elezioni repubblicane. Si approfondì la contrapposizione frontale tra gli schieramenti, che non poteva non lasciare indenne l’unità sindacale. Intanto, in campo agricolo, infuriava la lotta per i contratti agrari.
Il 14 luglio 1948 l’attentato a Togliatti portò il paese sull’orlo di una nuova guerra civile.
L’esecutivo nazionale della CGIL decise di proclamare lo sciopero generale, nonostante il dissenso della corrente sindacale cristiana, i cui dirigenti per questo motivo furono espulsi dall’esecutivo. In ottobre si arrivò così alla costituzione della Libera CGIL (Lcgil).
Il 18 ottobre i parlamentari bolognesi Bersani, Elkan, Manzini e Salizzoni presentarono un’interpellanza in Parlamento sui gravissimi episodi di violenza che si erano verificati nella provincia di Bologna subito dopo la proclamazione dei Liberi sindacati.
Lo stesso Togliatti si lamentava della situazione dell’Emilia, affermando che in quella regione, e specialmente in alcune provincie, non esisteva la legalità costituzionale.
E’ in questo clima e in questa situazione che il 4 novembre 1948 fu ucciso Giuseppe Fanin. Un episodio che ebbe un’eco immensa in tutto il paese e che placò momentaneamente le violenze.
Poco dopo l’assassinio di Fanin, uscirono dalla CGIL le componenti repubblicana e socialdemocratica che, con la Lcgil, firmarono un accordo per arrivare all’unificazione.
Nasce così la CISL il 30 aprile 1950.

Biografia del Servo di Dio Giuseppe Fanin

A Casalecchio di Reno il “Circolo MCL Lercaro” ricorda Giuseppe Fanin
• Venerdì 28 ottobre 2011 ore 21 Giuseppe Fanin: dalla memoria alla testimonianza
In preparazione all'anniversario dell'uccisione di Giuseppe Fanin,
venerdì 28 ottobre 2011, alle ore 21, il prof. Giuseppe Cremonesi terrà una pubblica conferenza dal titolo "Dalla memoria alla testimonianza", presso la parrocchia S. Lucia di Casalecchio di Reno (via Bazzanese 17).
L'incontro, promosso dal locale Circolo Mcl, intende far conoscere la figura del giovane animatore dei lavoratori cristiani bolognesi attualizzandone l'insegnamento di vita
• Venerdì 4 novembre 2011 ore 9 Cerimonia in Via Giuseppe Fanin
Nella mattinata di venerdì 4 novembre 2011, alle ore 9, avrà luogo la cerimonia di commemorazione del 63° anniversario del sacrificio di Giuseppe Fanin nella strada che il Comune di Casalecchio di Reno gli ha dedicato (in prossimità di Via del Lavoro di fronte alla Polizia stradale).
Interverranno:
- Don Luigi Garagnani, Parroco ai Ss. Antonio e Andrea di Ceretolo,
- Don Bruno Biondi, Parroco di Santa Lucia di Casalecchio,
- Simone Gamberini, Sindaco di Casalecchio
- Francesco Motta, Presidente del Circolo MCL Giacomo Lercaro di Casalecchio.

Testamento morale di Giuseppe Fanin
Esercizi spirituali / Villa San Giuseppe - San Luca (Bologna) / 2 - 5 aprile 1947
Riforma Spirituale
Ponendomi dinanzi a Dio e con il Suo aiuto io intendo ora compilare questo scritto, cercando di mettere sulla carta, con la maggior fedeltà possibile, quelli che sono i pensieri e i propositi maturati nella mia anima e nel mio cuore durante questi, che spero, salutari e santi Esercizi.
Per primo punto, pur considerando le mancanze che in seguito per la mia stessa debolezza commetterò, intendo aderire al 3° grado di perfezione spirituale, secondo il pensiero di Sant'Ignazio. Quanto sopra nell'ambito della vocazione e dello stato di vita scelto (benché non sia ancora detta l'ultima parola) che a rigor di termini è definito matrimoniale. In conseguenza di quanto sin qui affermato, declino ora i miei concreti propositi nei miei rapporti con Dio, me stesso ed il prossimo.

Dal “Decreto di introduzione della causa” del 4 ottobre 1998 - GIUSEPPE FANIN "Servo di Dio"
"La memoria di Giuseppe Fanin non si spenta dopo la sua morte, anzi è andata aumentando nel corso del tempo, estendendosi anche al di fuori della nostra Diocesi e regione, e sollecitando molti cristiani ad un impegno sociale evangelicamente ispirato. Abbiamo perciò ritenuto opportuno raccogliere la documentazione del suo impegno ecclesiale e della sua adesione agli insegnamenti evangelici. Alla luce delle testimonianze assunte, e più in generale della fama di santità di cui Ci è giunta notizia, abbiamo deciso di avviare la Causa di Beatificazione.”
Bologna 4 ottobre 1998
+ Giacomo Biffi
Cardinale Arcivescovo

Preghiera 

Ottomila strade per Giuseppe Fanin
Fra pochi giorni ricorre l’anniversario del sacrificio di Giuseppe Fanin, una delle figure più fulgide del movimento sociale cristiano; il sindacalista persicetano è un riferimento per quanti sono impegnati in politica, nell'associazionismo, e nell'organizzazione sindacale. Non è raro trovare il ritratto di Giuseppe Fanin nelle sedi più impensate: circoli, leghe sindacali e sedi di patronato, da Belfiore d'Adige, in provincia di Verona a Canicattì, in provincia di Agrigento. Con queste poche righe rilanciamo la campagna "Ottomila strade per Giuseppe Fanin"; lo scopo è di arrivare ad intestare in ogni comune dell’articolato sistema delle autonomie locali vie o edifici pubblici al martire persicetano. La proposta è rivolta innanzitutto alle strutture periferiche dell'associazionismo e del mondo del lavoro. In questa azione - petizione si punta soprattutto al coinvolgimento delle persone impegnate nei Consigli comunali e nelle Giunte locali.

martedì 18 ottobre 2011

Franz Jägerstätter, a mani nude contro Hitler

di Anselmo Palini

Vi invio, per l'area Testimoni, un articolo su Franz Jägerstätter, un giovane contadino austriaco, recentemente beatificato, che si rifiutò di entrare nell'esercito tedesco.

Pochissime persone in Germania e in Austria si rifiutarono, durante la seconda guerra mondiale, di arruolarsi nell’esercito nazista. Fra queste emerge la figura di Franz Jägerstätter, un contadino austriaco che venne giustiziato appunto perché rifiutò di prestare servizio militare nell’esercito di Hitler.
Nel corso del 1993, nel cinquantesimo anniversario della morte, sono state avviate dalla diocesi di Linz le procedure per chiedere l’apertura del processo di beatificazione per Franz Jägerstätter. Questo fatto ha significato un riconoscimento ai massimi livelli della figura e del martirio di Franz Jägerstätter.
Certamente, però, per molto tempo la persona e le azioni di questo contadino austriaco sono state valutate diversamente e non hanno ottenuto quel riconoscimento che certamente meritano.

- L’ambiente di vita
- Il giovane Franz Jägerstätter
- Un momento fondamentale nella vita di Franz Jägerstätter:
   il matrimonio con Franziska Schwaninger
- I primi periodi in divisa militare
- Un vescovo e molti suoi sacerdoti contrari al nazismo
- Un tradimento del messaggio evangelico
- Una scelta maturata nella solitudine
- Nove importanti commentari
- La nuova chiamata alle armi e la carcerazione a Linz
- Il trasferimento a Berlino e il processo
- La morte a Brandeburgo
- Il riconoscimento della grandezza di Franz Jägerstätter
- La storia di un martire

Thomas Merton ha così concluso le pagine che ha dedicato a Franz Jägerstätter nel suo libro Fede e violenza: “La storia del contadino austriaco è in modo evidente quella di un martire, di un cristiano che seguì la propria coscienza e la volontà di Dio con una dedizione che non può trovare piena giustificazione soltanto in un movente umano. In altri termini sembra che già in questa biografia si possa trovare una prova persuasiva di ciò che la Chiesa cattolica considera santità. Il vero problema sollevato dalla vicenda di Jägerstätter non è unicamente quello del diritto individuale del cattolico all’obiezione di coscienza (ammesso in pratica anche da quelli che dissentivano completamente da Jägerstätter), ma è il problema della missione propria della Chiesa: di protesta e di profezia nella più grave crisi spirituale che l’uomo abbia mai conosciuto".

sabato 15 ottobre 2011

L'universalismo di Dante
nella formazione dell'identità europea

di Alessandro Ghisalberti
Ordinario di Filosofia teoretica e Direttore della “Rivista di Filosofia Neoscolastica” dell'Università Cattolica di Milano

Articolo su Dante e l’Europa, pubblicato nei Quaderno n. 5 dell’ASSBB, “Alla ricerca delle radici della nostra cultura”, maggio 2011.

"È una lettura un po' nuova di un tema attualissimo!"

Parlare di Europa ai tempi di Dante significa assumere una consapevolezza preliminare, dovuta anche quando si parla di Italia nell’età di Dante, ossia si deve essere consapevoli del rischio di caricare i due termini, Europa e Italia, di una valenza geopolitica che in quel tempo non possedevano; eppure Dante è certamente tra i formatori dei valori che nel tempo l’Europa delle nazioni farà propri, così come fondamentale è stato il contributo del poeta fiorentino nel corso dei cinque secoli successivi alla sua morte alla formazione dello stato italiano unitario, della cui nascita ricorre quest’anno il 150° anniversario. In particolare la lingua toscana e la poesia di Dante sono stati riferimenti decisivi nei secoli a forgiare la storia della letteratura e cultura d’Italia, anche quando l’Italia unita non c’era ancora, ma si parlava l’italiano e nel mondo si diffondevano l’arte, la musica, i costumi italiani.
Senza cadere in antistorici anacronismi, intendiamo ripercorre un itinerario non alla ricerca di un precursore, ma meglio si direbbe di un “formatore”, volto cioè a far emergere elementi forti calati nel pensiero e nelle azioni di Dante veicolanti la coscienza di una comune patria ideale transnazionale.

1. Dante, Firenze e l’Europa
Firenze è pertanto il simbolo stesso della civitas, dei valori che devono appartenere a qualunque città dell’Europa cristiana, e, secondando l’impegno dell’autore della Monarchia, di ogni cittadino, di ogni persona in cui è attivo l’intelletto possibile. E ciò nonostante l’amata lingua volgare fiorentina, che, nella percezione lungimirante che Dante mostra di avere circa la variazione delle lingue nel corso della storia, lungi dall’ostacolare, consente alla patria universale di accogliere al suo interno la pluralità linguistica e le identità storiche particolari. Ricordiamo che al tempo di Dante la lingua comune delle istituzioni e degli intellettuali restava il latino, lingua in cui egli stesso scrisse significativamente, ma in un certo senso anche contraddittoriamente, un trattato a difesa del volgare nobile (De vulgari eloquentia).

2. Romanesimo e cristianesimo nelle opere di Dante
È nota la dichiarazione che Dante fa all’inizio del secondo libro della Monarchia, a proposito dell’avvenuto cambiamento circa una valutazione politica: un tempo si era convinto che il popolo romano avesse conquistato il mondo con la forza delle armi, mentre in seguito cambiò opinione, perché capì che tutto era avvenuto per un preciso disegno della Provvidenza.
Con una vertiginosa sintesi Dante parla di Roma celeste, di Roma come Paradiso, così come tante volte nella letteratura patristico–cristiana si era parlato di Gerusalemme, della “Gerusalemme celeste” come del Paradiso. Nel canto XXXII del Purgatorio per tutti i giusti Dante preconizza una cittadinanza in Roma–Paradiso, alla consumazione di tempi:
“Qui sarai tu poco tempo silvano;
e sarai meco sanza fine cive
di quella Roma onde Cristo è romano”.
Nella parte finale del trattato sulla Monarchia, Dante osserva che l’uomo, essendo provvisto di una duplice natura, fisica e spirituale, ha pure un duplice fine da realizzare, ossia la felicità terrena e la felicità eterna. L’autonomia del potere temporale da quello spirituale non toglie che sia necessario un coordinamento: l’imperatore deve usare verso il pontefice quella riverenza che il figlio primogenito deve al padre, e ciò in virtù del fatto che la felicità terrena è per molti aspetti ordinata al conseguimento di quella eterna . Viene così ribadita la gerarchia medievale dei fini, non per una comoda correzione di rotta, quasi a voler rimediare l’eccessiva divaricazione proiettata verso il dualismo, bensì per sollecitare una modalità giusta di intendere sul piano operativo le conclusioni raggiunte a livello speculativo.

3. Dante traccia i confini ideali dell’Europa
Ricordavamo prima che, nell’epistola VII, Dante scrive ad Arrigo VII “che il glorioso potere dei Romani né da limiti dell’Italia né dal termine della tricorne Europa è ristretto”: tricorne, ossia approssimativamente triangolare, dalla linea del Don alle colonne d’Ercole, alle isole britanniche.
Il termine orientale dell’Europa è costituito dai monti della Troade (“lo stremo d’Europa”), da cui mosse l’aquila imperiale, seguendo il viaggio di Enea, che da Ilio approdò ai lidi del Lazio; l’occidente è dato dalle coste atlantiche della Castiglia, in cui si situa Calaruega, la città natale di San Domenico:
In quella parte ove surge ad aprire
Zefiro dolce le novelle fronde
di che si vede Europa rivestire” (Pd XII, 56-48)
La Spagna è l’Occidente dell’Europa, dove il dolce vento di ponente, Zefiro, soffia nella stagione primaverile, quando gli alberi mettono le fronde. Ma le coordinate geografiche acquistano un forte significato simbolico, quello per cui Francesco nascendo ad Assisi, e sorgendo come un sole splendente, fa sì che “chi d’esso loco fa parole/ non dica Ascesi, che direbbe corto/ ma Oriente, se proprio dir vuole” (Pd XI, 52-54). E Calaruega, la città di Domenico, non lontana dal golfo di Guascogna, aperto sull’oceano Atlantico, situa l’Occidente “non molto lungi al percuoter de l’onde/ dietro a le quali, per la lunga foga,/ lo sol tal volta ad ogni uom si nasconde” (Pd XII, 49-51). E’ passato quasi un secolo rispetto agli anni della stesura del poema, da quando la geografia d’Europa è stata rinnovata nei suoi confini simbolici da due grandi campioni dello Spirito: dall’Oriente di Francesco, tutto serafico nell’ardore della carità, e dall’Occidente di Domenico, maestro di sana dottrina, che “in picciol tempo gran dottor si feo” (Pd XII, 85). In questa Europa contrassegnata da confini simbolici, ma suscitati dalla carica dello Spirito, costruiscono la propria cittadinanza civile e religiosa gli uomini e le donne del secolo di Dante.

Un bilancio del percorso che abbiamo sviluppato, con l’intenzione di volere essere il più possibile fedele e corretto interprete del pensiero di Dante circa il tema dell’Europa, ci fa constatare come Dante sia un autore estremamente difficile, a causa della straordinaria ricchezza ed insieme della enorme complessità delle sue opere. Gettando uno sguardo a ritroso su ciò che abbiamo fatto emergere, si nota subito come tutti i problemi che abbiamo enucleato contengano una forte marcatura autobiografica, un intreccio forte tra biografia e opera. La sua esaltazione dei valori universali di un Impero che storicamente aveva perso molto terreno, la celebrazione della missione di Firenze, che nel presente storico era invece segnata da grandi corruzioni, la difesa dei valori nobili della tradizione in un momento in cui dominavano i mercanti, i banchieri, i costumi immorali su ogni fronte, ci fanno cogliere un Dante carico di una dimensione profetica, nel senso di un portatore di valori straordinari, superiori alla percezione ordinaria, della diffusione dei quali egli si sente investito in seguito a una visione, a un mandato dall’alto, lo stesso che l’ha autorizzato a compiere l’audace viaggio nei tre regni ultraterreni nella Commedia. Nel caso del pensiero politico universalistico, transnazionale, Dante appare quasi “profeta di sé stesso”, ossia autorizzato a ciò dalla propria storia famigliare (vedi i Canti di Cacciaguida), dalla personale vicenda di esule per troppo amore degli ideali puri della politica, dall’autopercezione delle proprie capacità intellettuali che lo fanno sentire un diverso, con una marca di eccezionalità che lo inquieta ed insieme lo carica di responsabilità.
Può, questo percorso dantesco, essere di aiuto nel ripensare l’unità europea di oggi? Certamente, se fissiamo lo sguardo sulla sua visione delle radici comuni della civiltà europea, che affondano nell’Europa medievale. Ricordiamo che la novità di questa, la destinale sintesi di romanesimo e cristianesimo, aveva comportato un cambiamento nella geografia, che era cambiata rispetto a quella dell’impero romano, il quale comprendeva il Nord Africa e grosse porzioni di Asia, dunque non era l’Europa. L’importante sono le affinità che accomunano le nazioni europee, quelle che ancora oggi uniscono gli spiriti nella tensione verso valori ideali condivisi (libertà, giustizia, solidarietà) dalla umanità europea, più di quanto non li separino i confini nazionali, le identità linguistiche o i particolarismi geopolitici.
All’Europa delle nazioni affiancherei un valore aggiuntivo, quello dell’Europa dello Spirito, termine con cui esprimerei le coordinate identitarie, identificative dell’appartenenza all’Europa, o anche quella che si potrebbe dire l’anima dell’Europa. Dante ha abitato tre luoghi: Firenze, le città d’Italia che lo hanno ospitato esule, l’universalismo europeo inteso come l’Impero, che abitò con indomita tensione ideale. Ecco i tre luoghi dell’Europa di Dante, cui appartenne senza essere proprietà esclusiva di nessuno, perché egli fu un europeo che ha abitato quella terra che è la vita interiore, quella dimensione vitale che chiamiamo anima, che fa pulsare fortemente, accanto alla vita del corpo, la vita dell’uomo interiore, la vita dello Spirito, fonte della comunione tra i popoli e capace di suscitare identità forti e durature.

lunedì 3 ottobre 2011

Festa del Pane dell'Olio e del Vino 2011

La Festa per la Romagna nel Centro Storico di Rimini


Anche quest’anno, si replica – siamo giunti alla sua terza edizione – la manifestazione che vuole promuovere il territorio romagnolo e le sue eccellenze: la Festa del Pane, dell’Olio e del Vino che si terrà domenica 9 ottobre in piazza Cavour a Rimini. Così prosegue la riscoperta dei prodotti tradizionali rispetto ai quali la Festa, una festa per la Romagna, vuole essere un veicolo di promozione e spunto di riflessione. Come ogni anno infatti, la Festa non sarà tanto una sagra di prodotto, seppure molte prelibatezze saranno sui tavoli degli espositori – venuti fin dalla Valconca e dalla Valmarecchia – ma sarà occasione sia per fare cultura che per discutere di sviluppo del patrimonio rurale.

E allora ecco cosa proporrà la terza edizione della Festa, che anche quest’anno accoglierà i prodotti e le realtà dell’entroterra romagnolo.
Innanzitutto una festa del Pane, dell’Olio e del Vino perché prodotti simbolo della nostra cultura gastronomica, della nostra storia civile e della nostra religione; quindi stand, degustazioni e mercatino dei produttori locali per l’acquisto diretto e più conveniente.

Sarà un’occasione formativa per gli studenti delle scuole con il concorso di disegno “Colori d’Autunno”, i laboratori di panificazione e la mostra degli animali autoctoni.



Il programma comprenderà inoltre momenti di riflessione spirituale con il vivace spettacolo ad opera dei frati francescani su San Francesco e Sant’Antonio a Rimini, quest’anno organizzato dal Circolo ACLI - Società Libraria presso la piazza Cavour. Presenza francescana, che nell’anno dedicato all’Italia e al Suo Patrono, allieterà la manifestazione persino con una dimostrazione di produzione di pasta fresca e con una forte presenza legata a Francesco d’Assisi.


Infine, dopo due edizioni incentrate sulla riflessione e lo studio circa come affrontare i problemi dell’agricoltura e il rilancio della connessione con il Turismo, nel workshop pomeridiano che si terrà presso la Sala degli Archi su “Strategie per lo Sviluppo Rurale” si tratteranno due proposte: una, di carattere culturale legato al cibo ed alla proposta di creazione di un centro tematico di servizi per il Turismo e l’Agricoltura dal titolo “Il Giardino dell’archeologia dei sapori”; l’altra, legata anche alla impellente adozione del RUE e del PSC, che vuole focalizzare l’attenzione – a partire appunto dall’intervento normativo sui regolamenti locali – sulle proposte per il rilancio del territorio sotto un profilo di tutela e di nuove opportunità per chi voglia intraprendere.

Quali sono le principali problematiche dell’agricoltura in questo momento?
La necessità del sostegno al credito insieme all’innovazione. Ma anche la possibilità di rendere abitabile l’entroterra per le famiglie, attraverso un’edilizia cosciente del territorio e di chi lo abita o voglia investirvi. Sono 200 milioni i turisti in cerca di circuiti alternativi ai quali possiamo offrire non solo il pacchetto mare.
L’obiettivo di questa festa dunque non è fare della nostalgia, ma presentare, promuovere e far vendere in piazza, tutte le eccellenze materiali ed immateriali del territorio.








Panoramica - Festa del Pane, dell'Olio e del Vino 2011

Mostra di animali autoctoni

Spettacolo frati francescani

Rassegna Stampa della Festa 2011:



Qui sotto trovate del materiale di studio sulle tematiche trattate alla Festa 2011:

Lo sviluppo rurale per il Sistema Romagna
Il futuro del mondo rurale che cambia
a cura dell'Associazione Centro Studi Nuove Generazioni

Oggi il mondo rurale è profondamente cambiato, pur se in modo diverso a seconda delle aree geografiche e della natura dei luoghi e dei terreni, perdendo in non pochi posti i tratti familiari e personalizzati tradizionali. Esso assume un volto che lo assimila sempre più alle forme industrializzate di produzione dei beni, slegate dalla società e dai territori locali.
Negli anni passati le aree rurali sono state investite da un declino che appariva inesorabile a vantaggio degli agglomerati urbani. In paricolare le cause del declino erano legate dalla convinzione che lo sviluppo socio-economico dipendesse dalla crescita dei distretti industriali, relegando questo settore da sempre primario ad un ruolo marginale. Si sono così spostate le politiche integrate dei sistemi produttivi locali e i relativi investimenti dai territori rurali verso le aree urbane e zone industriali, sede di imprese e servizi.
Questa introduzione vuole essere una premessa all'analisi del nostro contesto territoriale e alle relative proposte di sviluppo. Si deve infatti tener conto che nonostante lo spopolamento, i paesi rurali delle zone interne, pur non concorrenziali sul piano numerico in una prospettiva puramente economica, sono invece fondamentali sul piano qualitativo e dell’equilibrio territoriale complessivo, perché custodiscono vastissime zone, la cui sicurezza permette ad altre zone, più popolose, di vivere in dignità, ricchezza e bellezza. Inoltre, in una fase caratterizzata da risorse calanti e da crisi strutturali, servono a maggior ragione nuove politiche di valorizzazione e sviluppo del territorio, realizzate nella consapevolezza delle potenzialità ed opportunità di sviluppo offerte da un uso razionale, programmato e mirato delle risorse locali. Proprio per questo chi custodisce il territorio va accompagnato con intelligenti misure politiche ed economiche, che favoriscano la permanenza soprattutto nelle zone collinari e montane. Sviluppo diventa l'obiettivo principale al cui raggiungimento dovranno concorrere tutte le risorse e gli strumenti disponibili traducendosi nella competitività del sistema economico, nella coesione sociale, nella ricerca della qualità, dell’innovazione e della sostenibilità ambientale nello sviluppo economico, la promozione attiva della necessaria cooperazione e solidarietà tra persone, imprese, istituzioni e territori.