a cura di Michele Giovannetti
SOCIETA’ LIBRARIA
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Giacinto Dragonetti, marchese aquilano, è l'autore del seguente trattato, pubblicato per la prima volta a Napoli, nella seconda metà del '700, e ricevuto con un applauso di poco inferiore a quello che ha reso famoso Beccaria. Due edizioni italiane erano state rapidamente vendute quando M. Pingeron, un ufficiale Francese al servizio della Polonia, decise di ripubblicare l'opera con la sua traduzione a Parigi.
Il Dragonetti svolge l'opera intorno ad un tema cruciale, quello della Virtù. In questo intento il Trattato si prefigura come un completamento del pensiero esposto da Beccaria nel trattato “Dei Delitti e delle Pene”; l'autore vuole qui rimarcare il concetto che così come sia giusto punire i crimini, sia altrettanto giusto premiare le virtù, in misura maggiore in rapporto al loro valore di pubblicità, che stima essere non solo cosa accessoria al buon governo, ma parte integrante del processo di riconoscimento dei fondamentali diritti dell'uomo. Il “premio” è una ricompensa che va oltre i contratti e le leggi, è uno stimolo e tensione al bene comune, oltre ad essere premessa di un più vero e sostenibile sviluppo economico. Senza che la società lo riconosca commette un’ingiustizia. Proprio per questa necessità che l’autore avverte, di premiare la Virtù per riconoscere i diritti dell’uomo, egli supera il punto di vista del Beccaria, che spesso nella sua opera riconduce l’utilizzo della legge a mero strumento di governo. E’ significativo notare come l’aquilano evidenzia l’apporto delle leggi come strumento limitato per la formazione e lo sviluppo dell’uomo, uscendo comunque dalla logica educativa di carattere esperienziale dell’illuminista e sensista milanese, che vede nelle pene conseguenti l’infrazione di una legge, solamente un mezzo per evitare il delinquere. Infatti così come è vero che inizialmente le leggi divengono la necessaria circonferenza entro cui contenere la libertà dell’uomo ai fini delle sua stessa conservazione, è altrettanto importante evidenziare come conseguentemente, la vita in comunità e il successivo fiorire delle relazioni fra gli uomini (la reciproca amorevolezza venuta a mancare in origine, per via di un “disordinato amore di sé stessi”) fanno nascere una serie di bisogni che superano questa circonferenza. A questi bisogni, si riesce a sopperire solamente attraverso l’abnegazione di sé stessi per la ricerca dell’utilità pubblica. Non si può qualificare come virtuosa, un’azione svolta in ossequio a leggi di natura umana, divina o civile alle quali ci si è liberamente soggettati: in questo senso, persino il merito non è considerato necessariamente una virtù. La Virtù non è solamente palliativo per una società fondata sulla conservazione dai mali, ma vero e proprio “collante” relazionale, che stimola i rapporti fra le persone e ne promuove la crescita e il progresso in tutti gli aspetti della vita, rispettando le specifiche identità del singolo.
Al di là di questo, il Dragonetti non si sofferma molto sul tema della Virtù in quanto tale, perché non ha intenzione in questa opera di trattare di filosofia o teologia: ma, in una concezione più ampia, di società civile. A questo punto, sono dunque da farsi due considerazioni.
La prima, riguarda il fatto che il non volere trattare in termini filosofici, ma “politici ed economici” della Virtù, non significa che consideri questa secondo un concetto “laicista”, “deista”, del tempo in cui viveva; come già spiegato in relazione all’opera del Beccaria, non vuole fare di essa una divinità da inserire nell'Olimpo Illuminista insieme alla Dea Ragione, in una nuova religione che sia “instrumentum regni”. Per l'autore la Virtù è qualcosa che dipende dal bene, riconoscibile dal cuore, sentimento connaturale all'uomo. Si è ampliata la sua conoscenza solo tramite i “divini insegnamenti”, ma non è qualcosa di riadattabile al sentire di un determinato momento, perché essa è tale sin dall'inizio dei tempi, così come è libero l'uomo di sceglierla.
La seconda premessa, è che il Dragonetti, considerato uno dei padri dell'”Economia Civile”, non parla in questo libro di concetti economici, come verrebbero intesi oggi; non è a tratti più liberista, o più socialista, o più mercantilista. Per parlare di economia civile, l'autore deve necessariamente parlare di società civile. Questo perché il concetto di economia civile, comprende la condizione di benessere di tutta la società, dal principe al suddito, dal contadino all'operaio, dall'artigiano al mercante, dal mendicante al ricco. La società è il corpo composto dagli uomini che vi prendono volontariamente e necessariamente parte e insieme, delle relazioni che si instaurano tra essi. L'economia è l'abito con cui la società tutta si deve vestire dal freddo e deve acquisire prestigio. Lo Stato è il sussidio necessario, non il sussidiante o il sussidiato dell'economia o dall'economia; la società lo usa, attraverso il suo governante, per essere rappresentata nella sua pienezza e poter crescere nel benessere comune.
Dragonetti ha una visione comunitaria dello Stato, concezione fortemente influenzata dalla teoria contrattualistica di Locke, in quanto vede nella società un insieme di persone che per perseguire il proprio bene sono disposte a rinunciare ad una parte della propria libertà, sottoscrivendo un contratto sociale. Da questa visione, forse limitata, proprio per il fatto che non è approfondita, se ne deduce che lo Stato è, come già detto, lo strumento attraverso il quale, tramite premi oltre che punizioni, si deve indirizzare verso il bene gli stessi uomini, che da esso sono rappresentati. Ma non solo lo Stato ha questi compiti: lo hanno anche i più abbienti e coloro che occupano ruoli istituzionali. Lui stesso ora prende la parte dei poveri contadini contro i possidenti o i Comuni che lasciano incolti alcuni terreni, ora quella dei mercanti sottoposti all'usura dei banchieri o di creditori strozzini, ora la parte dei disoccupati che non lo sono per volontà propria. Ben lungi da Marx, da Keynes, o da un travisato Adam Smith, Dragonetti testimonia il ruolo dello Stato e della sua classe politica e benestante nel perseguimento del benessere sociale, come “obbligo di giustizia” verso l'uomo giusto che ne fa parte, e verso l'umanità tutta che deve farne esempio di virtù.
Se volessimo suggerire una analisi teologica dell'opera di Dragonetti, essa è una esortazione a tutti a comportarsi come il padrone nella parabola dei vignaioli. Qui, Il padrone ingaggia all'alba dei lavoratori pattuendo un denaro al giorno. Un denaro dava quel che occorreva alla famiglia di un lavoratore per viverci: era una mercede giusta, degna. In varie ore del giorno il padrone scova in piazza dei lavoratori disoccupati e li manda a lavorare nella sua vigna. Alla sera s'aveva che alcuni braccianti avevano lavorato dodici ore, alcuni nove, alcuni sei...e qualcuno un'ora sola. Il padrone paga un denaro a tutti, sia a quelli che avevano sudato dodici ore, sia a quelli che avevano sudato un'ora. Il padrone dà “quanto è giusto”, quanto è necessario per vivere, lungi da una meritocrazia liberale o socialista, che avrebbe pagato in proporzione al rendimento, in maniera non sufficiente a vivere per chi aveva lavorato un'ora o poco più. Il padrone infatti considera che i disoccupati lo erano senza loro colpa e guarda non solo al lavoro, ma anche al lavoratore, alla persona. Non dà un lavoro inutile da fare; dà un lavoro utile ed è responsabile della persona, oltre a responsabilizzarla.
Questo devono fare lo Stato, e i “particolari”: essere virtuosi, creare le condizioni perché tutti si possano esprimere tramite il proprio lavoro, ispirare virtù e premiare la virtù degli uomini. E questo anche di coloro che pur senza speciali imprese, sacrificano una parte di sé stessi e della loro indipendenza per vivere in comunità, in comunione, che deve risultare una più piena forma di libertà.
Dragonetti non suggerisce “Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato”; Dragonetti non sostiene “Tutti proletari”; Dragonetti non pretende che lo Stato lavi la Mano Invisibile del Mercato. Dragonetti dice: tutti, ad ogni livello, formano lo Stato; tutti, sono proprietari e partecipi della propria ed altrui esistenza, in questa società, nella quale l'economia riacquista la sua accezione originale: manutenzione della casa.
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Giacinto Dragonetti, marchese aquilano, è l'autore del seguente trattato, pubblicato per la prima volta a Napoli, nella seconda metà del '700, e ricevuto con un applauso di poco inferiore a quello che ha reso famoso Beccaria. Due edizioni italiane erano state rapidamente vendute quando M. Pingeron, un ufficiale Francese al servizio della Polonia, decise di ripubblicare l'opera con la sua traduzione a Parigi.
Il Dragonetti svolge l'opera intorno ad un tema cruciale, quello della Virtù. In questo intento il Trattato si prefigura come un completamento del pensiero esposto da Beccaria nel trattato “Dei Delitti e delle Pene”; l'autore vuole qui rimarcare il concetto che così come sia giusto punire i crimini, sia altrettanto giusto premiare le virtù, in misura maggiore in rapporto al loro valore di pubblicità, che stima essere non solo cosa accessoria al buon governo, ma parte integrante del processo di riconoscimento dei fondamentali diritti dell'uomo. Il “premio” è una ricompensa che va oltre i contratti e le leggi, è uno stimolo e tensione al bene comune, oltre ad essere premessa di un più vero e sostenibile sviluppo economico. Senza che la società lo riconosca commette un’ingiustizia. Proprio per questa necessità che l’autore avverte, di premiare la Virtù per riconoscere i diritti dell’uomo, egli supera il punto di vista del Beccaria, che spesso nella sua opera riconduce l’utilizzo della legge a mero strumento di governo. E’ significativo notare come l’aquilano evidenzia l’apporto delle leggi come strumento limitato per la formazione e lo sviluppo dell’uomo, uscendo comunque dalla logica educativa di carattere esperienziale dell’illuminista e sensista milanese, che vede nelle pene conseguenti l’infrazione di una legge, solamente un mezzo per evitare il delinquere. Infatti così come è vero che inizialmente le leggi divengono la necessaria circonferenza entro cui contenere la libertà dell’uomo ai fini delle sua stessa conservazione, è altrettanto importante evidenziare come conseguentemente, la vita in comunità e il successivo fiorire delle relazioni fra gli uomini (la reciproca amorevolezza venuta a mancare in origine, per via di un “disordinato amore di sé stessi”) fanno nascere una serie di bisogni che superano questa circonferenza. A questi bisogni, si riesce a sopperire solamente attraverso l’abnegazione di sé stessi per la ricerca dell’utilità pubblica. Non si può qualificare come virtuosa, un’azione svolta in ossequio a leggi di natura umana, divina o civile alle quali ci si è liberamente soggettati: in questo senso, persino il merito non è considerato necessariamente una virtù. La Virtù non è solamente palliativo per una società fondata sulla conservazione dai mali, ma vero e proprio “collante” relazionale, che stimola i rapporti fra le persone e ne promuove la crescita e il progresso in tutti gli aspetti della vita, rispettando le specifiche identità del singolo.
Al di là di questo, il Dragonetti non si sofferma molto sul tema della Virtù in quanto tale, perché non ha intenzione in questa opera di trattare di filosofia o teologia: ma, in una concezione più ampia, di società civile. A questo punto, sono dunque da farsi due considerazioni.
La prima, riguarda il fatto che il non volere trattare in termini filosofici, ma “politici ed economici” della Virtù, non significa che consideri questa secondo un concetto “laicista”, “deista”, del tempo in cui viveva; come già spiegato in relazione all’opera del Beccaria, non vuole fare di essa una divinità da inserire nell'Olimpo Illuminista insieme alla Dea Ragione, in una nuova religione che sia “instrumentum regni”. Per l'autore la Virtù è qualcosa che dipende dal bene, riconoscibile dal cuore, sentimento connaturale all'uomo. Si è ampliata la sua conoscenza solo tramite i “divini insegnamenti”, ma non è qualcosa di riadattabile al sentire di un determinato momento, perché essa è tale sin dall'inizio dei tempi, così come è libero l'uomo di sceglierla.
La seconda premessa, è che il Dragonetti, considerato uno dei padri dell'”Economia Civile”, non parla in questo libro di concetti economici, come verrebbero intesi oggi; non è a tratti più liberista, o più socialista, o più mercantilista. Per parlare di economia civile, l'autore deve necessariamente parlare di società civile. Questo perché il concetto di economia civile, comprende la condizione di benessere di tutta la società, dal principe al suddito, dal contadino all'operaio, dall'artigiano al mercante, dal mendicante al ricco. La società è il corpo composto dagli uomini che vi prendono volontariamente e necessariamente parte e insieme, delle relazioni che si instaurano tra essi. L'economia è l'abito con cui la società tutta si deve vestire dal freddo e deve acquisire prestigio. Lo Stato è il sussidio necessario, non il sussidiante o il sussidiato dell'economia o dall'economia; la società lo usa, attraverso il suo governante, per essere rappresentata nella sua pienezza e poter crescere nel benessere comune.
Dragonetti ha una visione comunitaria dello Stato, concezione fortemente influenzata dalla teoria contrattualistica di Locke, in quanto vede nella società un insieme di persone che per perseguire il proprio bene sono disposte a rinunciare ad una parte della propria libertà, sottoscrivendo un contratto sociale. Da questa visione, forse limitata, proprio per il fatto che non è approfondita, se ne deduce che lo Stato è, come già detto, lo strumento attraverso il quale, tramite premi oltre che punizioni, si deve indirizzare verso il bene gli stessi uomini, che da esso sono rappresentati. Ma non solo lo Stato ha questi compiti: lo hanno anche i più abbienti e coloro che occupano ruoli istituzionali. Lui stesso ora prende la parte dei poveri contadini contro i possidenti o i Comuni che lasciano incolti alcuni terreni, ora quella dei mercanti sottoposti all'usura dei banchieri o di creditori strozzini, ora la parte dei disoccupati che non lo sono per volontà propria. Ben lungi da Marx, da Keynes, o da un travisato Adam Smith, Dragonetti testimonia il ruolo dello Stato e della sua classe politica e benestante nel perseguimento del benessere sociale, come “obbligo di giustizia” verso l'uomo giusto che ne fa parte, e verso l'umanità tutta che deve farne esempio di virtù.
Se volessimo suggerire una analisi teologica dell'opera di Dragonetti, essa è una esortazione a tutti a comportarsi come il padrone nella parabola dei vignaioli. Qui, Il padrone ingaggia all'alba dei lavoratori pattuendo un denaro al giorno. Un denaro dava quel che occorreva alla famiglia di un lavoratore per viverci: era una mercede giusta, degna. In varie ore del giorno il padrone scova in piazza dei lavoratori disoccupati e li manda a lavorare nella sua vigna. Alla sera s'aveva che alcuni braccianti avevano lavorato dodici ore, alcuni nove, alcuni sei...e qualcuno un'ora sola. Il padrone paga un denaro a tutti, sia a quelli che avevano sudato dodici ore, sia a quelli che avevano sudato un'ora. Il padrone dà “quanto è giusto”, quanto è necessario per vivere, lungi da una meritocrazia liberale o socialista, che avrebbe pagato in proporzione al rendimento, in maniera non sufficiente a vivere per chi aveva lavorato un'ora o poco più. Il padrone infatti considera che i disoccupati lo erano senza loro colpa e guarda non solo al lavoro, ma anche al lavoratore, alla persona. Non dà un lavoro inutile da fare; dà un lavoro utile ed è responsabile della persona, oltre a responsabilizzarla.
Questo devono fare lo Stato, e i “particolari”: essere virtuosi, creare le condizioni perché tutti si possano esprimere tramite il proprio lavoro, ispirare virtù e premiare la virtù degli uomini. E questo anche di coloro che pur senza speciali imprese, sacrificano una parte di sé stessi e della loro indipendenza per vivere in comunità, in comunione, che deve risultare una più piena forma di libertà.
Dragonetti non suggerisce “Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato”; Dragonetti non sostiene “Tutti proletari”; Dragonetti non pretende che lo Stato lavi la Mano Invisibile del Mercato. Dragonetti dice: tutti, ad ogni livello, formano lo Stato; tutti, sono proprietari e partecipi della propria ed altrui esistenza, in questa società, nella quale l'economia riacquista la sua accezione originale: manutenzione della casa.
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