domenica 18 aprile 2010

Intervista a Stefano Zamagni - Una crisi che si attendeva

a cura di Carlo Pantaleo
Associazione Centro Studi Nuove Generazioni

Appunti dalla conferenza “Sull’avarizia”
tenuta da Stefano Zamagni, Università di Bologna

L’ultima conferenza delle “Meditazioni riminesi” che hanno per titolo “Filosofia della ricchezza. Riflessioni sull'economia contemporanea” è stata tenuta dal prof. Stefano Zamagni. “Sull'avarizia” è il titolo dato alla sua relazione. Il tema trattato affronta quel segno di preoccupante debolezza che è la diffusione a livello di cultura popolare dell’ethos dell’efficienza come criterio ultimo di giudizio e di giustificazione della realtà economica. Per un verso ciò ha finito col legittimare l’avidità -che è la forma più nota e diffusa di avarizia- come una sorta di virtù civica; per l’altro verso, l’ethos dell’efficienza è all’origine dell’alternanza, ormai sistematica, di avidità e panico.

Stefano Zamagni è nato a Rimini ed è docente ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna e Adjunct professor of International Political Economy alla John Hopkins University di Bologna. Dal 1997 al 2000 è stato Presidente del Corso di Diploma Universitario, oggi Corso di laurea, in Economia delle Imprese Cooperative e delle Organizzazioni No Profit; dal 2007 è Presidente a Milano dell’Agenzia per le ONLUS. Socio ordinario dell’Accademia delle Scienze di Bologna; dell’Accademia Nazionale delle Scienze, Lettere e Arti di Modena e dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere; membro della New York Accademy of Sciences; nel 2008 è stato insignito del titolo di Cavaliere Commendatore dell’Ordine di S. Gregorio Magno. Collabora con numerose riviste economiche nazionali ed internazionali ed è autore di numerose pubblicazioni tra cui si segnalano: con T. Cozzi “Istituzioni di economia politica. Un testo europeo”; con F. Delbono “Lezioni di microeconomia”; con E. Screpanti “Profilo di storia del pensiero economico”; “Per una nuova teoria economica della cooperazione”; con P. Sacco “Teoria economica e relazioni interpersonali” e “Complessità relazionale e comportamento economico”; con L. Bruni “Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica”; “L’economia del bene comune”, con V. Zamagni “La cooperazione”. E’ stato il curatore di saggi quali “Non profit come economia civile” e “Saggi di filosofia della scienza economica”.
Radicata nel pensiero dell’umanesimo civile la visione dell’economia di Zamagni ritiene che i principi “altri” dal profitto e dal mero scambio strumentale possano trovare posto proprio dentro l’attività economica e il mercato, in particolare. Prospetta una diversa configurazione di quell’insieme di attività che va sotto il nome di non profit e terzo settore accanto alle forme tipiche dello Stato e del mercato. La via è quella dello sviluppo di istituzioni di welfare civile e di forme nuove di impresa capaci di far diventare il mercato un luogo di incontri civili e civilizzanti, e persino di felicità pubblica.
Quelle che seguono sono le domande che abbiamo posto al prof. Zamagni nello specifico sul tema trattato, e le altre, comuni anche agli altri relatori, sull'attuale situazione.

DOMANDE

La scienza economica è “scienza dei mezzi” e quindi deve usare gli strumenti del sapere scientifico nel ricercare all’interno dell’economia stessa le regole da stabilire. Parlare di avarizia e di etica, in merito alle cause dell’attuale crisi non rischia di comprometterne il metodo?

Le cause prossime della crisi sono tali perché, sebbene sufficienti a scatenare la crisi finanziaria in atto, non sono anche necessarie. La crisi infatti si sarebbe comunque manifestata, sia pure in forme diverse, anche con perturbazioni diverse da quella dei mutui subprime. Quando la tempesta abbatte la casa, la causa principale è la debolezza strutturale dell’edificio, pur essendo vero che senza quella perturbazione perfino la casa costruita sulla sabbia resterebbe in piedi. Raggruppo i fattori di crisi che chiamo strutturali in tre blocchi.
1) La mancata regolazione e la mancanza di controlli da parte delle autorità e l’inadeguatezza delle agenzie di rating che non hanno controllato e verificato lo stato di salute e bilanci trasparenti delle banche.
2) Il passaggio dal capitalismo industriale al capitalismo finanziario per cui speculando sui mercati finanziari si può ottenere reddito e creare ricchezza senza il lavoro e la creatività industriale; di quest’ideologia fallace – travestita da presunta scientificità – si sono imbevuti operatori di mercato, autorità politiche di governo, agenzie di controllo, influenzati da quella specifica scuola di pensiero economico, oggi dominante, nota come mainstream economico. Essa parte dall’assunto antropologico dell’homo oeconomicus – che è un assunto, si badi, e non una proposizione dimostrata – ovvero dell’egoismo razionale, e giunge, dopo un lungo itinerario cosparso di teoremi raffinati e di indagini econometriche, alla conclusione che i mercati, anche quelli finanziari, sono assetti istituzionali in grado di autoregolarsi e ciò nel duplice senso di assetti capaci di darsi da sé le regole per il proprio funzionamento ed inoltre di farle rispettare.
3) La diffusione a livello di cultura popolare dell’ethos dell’efficienza come criterio ultimo di giudizio e di giustificazione della realtà economica. Per un verso, ciò ha finito col legittimare l’avidità – che è la forma più nota e più diffusa di avarizia – come una sorta di virtù civica: il greed market che sostituisce il free market. “Greed is good, greed is right” (l’avidità è buona; l’avidità è giusta), gridava il protagonista del celebre film del 1987, Wall Street. Per l’altro verso, l’ethos dell’efficienza è all’origine dell’alternanza, ormai sistematica, di avidità e panico. Né vale sostenere, come più di un commentatore ha tentato di spiegare, che il panico sarebbe conseguenza di comportamenti irrazionali da parte degli operatori. Perché il panico è nient’altro che un’euforia col segno meno davanti; dunque se l’euforia, secondo la teoria prevalente, è razionale, anche il panico lo è. Se le persone non fossero state prese negli ultimi 20 anni da una spropositata ricerca dell'utile individuale con titoli che promettevano rendimenti del 20 o 25%, non saremmo in questa condizione. Occorre riconoscere che alla base di comportamenti speculativi c'è una forte propensione verso l'usura e che la responsabilità è anche dei cittadini investitori.

“L’ascetismo scientifico” che porta a teorie definitive come nuoce a una corretta comprensione della natura e funzioni della scienza economica?

Nella scienza economica le teorie sono storicamente determinate, e quindi una certa teoria economica può essere valida in un certo momento e non valida in un altro, ma questo non vuol dire che la vecchia teoria economica debba essere superata o annullata. Ne deriva che lo studio della scienza economica e delle teorie economiche serve come antidoto nei confronti del rischio, sempre presente in non pochi economisti, di pensare ad una teoria valida in una determinata epoca storica come alla teoria definitiva. In questo senso, si può dire che lo studio della storia del pensiero economico non è un'esigenza culturale in senso lato, ma risponde ad una precisa istanza metodologica. In secondo luogo, lo studio del pensiero economico riveste una notevole valenza a livello pedagogico, perché aiuta l'economista ad essere «umile», a cioè riconoscere che le proprie teorie sono importanti strumenti di modificazione della realtà. Ci vuole, perciò, tanta umiltà per evitare che una certa impostazione teorica o le linee di politica economica che derivassero da quell'impostazione, possa considerarsi risolutiva.
Il processo che ha portato all'attuale crisi ha raggiunto il livello di pervasività e di incidenza di cui tutti oggi sono consapevoli grazie al supporto scientifico di una certa scuola di pensiero economico, senza cui le cose non sarebbero andate come sono andate. Prima di darne ragione, una premessa è indispensabile. A differenza di quanto accade nelle scienze naturali, quella economica è fortemente sotto l’influenza della tesi della doppia ermeneutica, secondo cui le teorie economiche sul comportamento umano incidono, tanto o poco, presto o tardi, sul comportamento stesso dell’uomo. Quanto a dire che la teorizzazione in ambito economico mai lascia immutato il suo campo di studio, dal momento che essa non solo plasma le mappe cognitive dell’agente economico, ma gli indica anche la via che deve essere seguita se si vuole conseguire in modo razionale lo scopo. Ora, se quest’ultimo è la massimizzazione del guadagno (o altra specificazione della funzione obiettivo) e se, come è ovvio, lo scopo di un’azione prescrive quali debbano essere i mezzi richiesti per realizzarlo, il circolo ermeneutico è presto chiuso. E’ per questa fondamentale ragione che l’economista non può trincerarsi dietro una presunta neutralità assiologica nel momento in cui produce modelli e teorie, soprattutto quando è consapevole del fatto che i prodotti del suo lavoro scientifico generano un certo modo di pensare e vengono presi come base di riferimento dal decisore politico.
Come mi aiutò a capire Hicks, la considerazione dell'etica nel discorso economico, esige una padronanza della teoria economica. Diversamente, si correrebbe il rischio di giustapporre a quella tecnica, la componente etica. E' questo il rischio, di una forma implicita di integrismo culturale.
La dimensione etica deve scaturire dall'interno delle categorie economiche, non può essere qualcosa di posticcio che viene o messo in cappello o alla fine nelle conclusioni. Non conviene mai abusare di un certo lessico cattolico, perché questo è il modo per allontanare non per dialogare. Se voglio dialogare con chi non ha la mia stessa concezione del mondo e uso un certo linguaggio, immediatamente creo un muro tra me e lui e il dialogo degenera in scontro ideologico. Per dialogare, debbo mostrare che, nel pieno rispetto dell'autonomia scientifica, è possibile far emergere una prospettiva di valori che sia universalizzabile. Nel lavoro scientifico in senso proprio, mi attengo a questa norma di comportamento. Non metto in discussione l'autonomia della scienza economica dall'etica ma la separazione tra le due: autonomia non vuol dire separazione. Mettere in discussione l'autonomia vorrebbe dire negare alla scienza economica un suo statuto epistemologico e la capacità di produrre conoscenza. Quello che io nego è la separazione. Non dimentichiamo che la scienza economica nasce da una costola della filosofia morale. Per arrivare più vicino a noi, direi che il modo più cogente per dimostrare che la scienza economica non può essere separata dall'etica è quello di mostrare che la teoria della razionalità in economia è essa stessa una teoria a contenuto etico.

Per citare il libro di Ruffolo, le chiediamo, anche tenendo conto dell’attuale crisi mondiale, il capitalismo ha i secoli contati?

L'eventuale fine del capitalismo non significa la fine dell'economia di mercato, di cui il primo è l'espressione di una delle diverse versioni che ha avuto. L'economia di mercato ne uscirà rafforzata se ci sarà il recupero della dimensione etica dell'agire economico, così come storicamente era nata nel 14° secolo. Certo si andrà verso una sobrietà e un meccanismo che impone delle regole. La confusione di pensiero, all’origine di gravi equivoci e quindi di inutili dibattiti, è quella che tende ad identificare, sovrapponendole, economia di mercato e economia capitalistica. Si tratta di una identificazione che è smentita dalla storia e che è priva di fondamento teorico. A partire dalla fine del XIII secolo e fino alla metà del XVI secolo, in Umbria e Toscana andò a costituirsi quel modello di ordine sociale per il quale il nostro paese è giustamente rimasto famoso nel mondo e che è noto come “civiltà cittadina”. Si tratta di un modello sostenuto dalla riflessione teorica di quelli che Garin (1947) e Pocock (1995) hanno chiamato gli umanisti civili. Ne ricordo soltanto alcuni. Matteo Palmieri, il cui saggio Della vita civile risale alla metà del decennio 1430-1440; Leonardo Bruni, cancelliere della repubblica fiorentina; Antonino da Firenze, vescovo domenicano della città; Benedetto Cotrugli, il cui trattato Della mercatura e del mercante perfetto è della metà del ‘400 (ma pubblicato solo alla metà del ‘500); Bernardino da Siena, autore delle celebri Prediche volgari del 1427. Istituzione centrale del modello di civiltà cittadina è proprio l’economia di mercato, quale da noi intesa oggi. Il mercato, come luogo di scambi aveva già avuto inizio in area mediterranea in epoca greco-romana.
Come chiaramente emerge dalla riflessione sistematica della Scuola francescana, prima vera e propria scuola di pensiero economico, tre sono i pilastri che identificano e sorreggono l’economia di mercato.
Il primo è la divisione del lavoro, intesa come principio organizzativo per consentire a tutti, anche ai meno dotati, di svolgere un’attività lavorativa.
Il secondo pilastro è la posizione di primo piano che assume nell’agire economico la nozione di sviluppo e, di conseguenza, quella di accumulazione. Non è solo per far fronte ad emergenze future che si deve accumulare ricchezza, ma anche per dovere di responsabilità nei confronti delle generazioni future. Una parte quindi del sovrappiù sociale deve essere destinata a investimenti produttivi, quelli cioè che allargano la base produttiva ed il cui senso profondo è quello di trasformare quello economico da gioco a somma zero a gioco a somma positiva.
Il terzo pilastro, infine, dell’economia di mercato è la libertà d’impresa. Chi ha creatività, adeguata propensione al rischio e capacità di coordinare il lavoro altrui – sono queste le tre caratteristiche che definiscono la figura dell’imprenditore – deve essere lasciato libero di intraprendere, senza dover sottostare ad autorizzazioni preventive di sorta da parte del sovrano (o chi per lui) perché la “vita activa et negociosa” è un valore di per sé e non solo mezzo per altri fini.
Ebbene, è solamente a partire dal ‘600 che l’economia di mercato inizia a diventare economia capitalistica, anche se occorrerà attendere la rivoluzione industriale per registrare il trionfo definitivo del capitalismo come modello di ordine sociale. Ai tre pilastri di cui sopra si è detto, il capitalismo aggiungerà il “motivo del profitto” (Sen, 1983) e cioè la finalizzazione di tutta l’attività produttiva ad un unico obiettivo, quello della massimizzazione del profitto da distribuire tra tutti i fornitori di capitale, in proporzione dei loro apporti. La logica del profitto, come oggi viene intesa, non è fondativa dell’economia di mercato. La costante che ricorre in tutte le opere umanisti civili è che le attività di mercato vanno orientate al bene comune, dal quale traggono legittimazione, anzi giustificazione. Si badi che il bene comune è cosa assai diversa dal bene totale. Sarà l’utilitarismo di Bentham a statuire la coincidenza dei due concetti, come ancor oggi si continua erroneamente a pensare.

L’economia sociale di mercato come soluzione alla crisi del sistema italiano è stato il tema recentemente protagonista di notevoli commentatori sulle principali testate giornalistiche. Cosa ne pensa in merito e in relazione al capitalismo?

Le principali matrici di filosofia politica – la liberal-individualistica (Nozick, Hayek), la comunitarista (Etzioni, Sandel, Walzer), la neo-contrattualistica (Rawls, Gauthier, Buchanan) – si dimostrano non all’altezza delle sfide in atto. Non perché errate – al contrario, tutte contengono grumi importanti e rilevanti di verità – ma perché riduzioniste. Non riescono, infatti, a concettualizzare un ordine sociale nel quale trovino simultaneamente applicazione il principio dello scambio di equivalenti, che sta alla base del contratto e al quale si chiede l’efficienza; il principio di redistribuzione, al quale viene chiesto il soddisfacimento di livelli decenti di equità per la cittadinanza; il principio di reciprocità, la cui missione specifica è di favorire la diffusione della cultura della fraternità. Due soli alla volta di questi principi quelle matrici riescono a fare stare assieme nelle loro raffinate elaborazioni. Eppure, una società capace di futuro ha bisogno che tutti e tre i principi trovino spazi adeguati di espressione. Il termine sociale veicola l’idea di un modo di concepire l'economia secondo cui il benessere prodotto tende ad includere, virtualmente, tutti i cittadini e dunque sociale sarebbe l’economia che si pone come obiettivo primario quello di correggere le distorsioni, sul piano distributivo, generate dal mercato. E' questa l'accezione fatta propria dal celebre modello tedesco di “economia sociale di mercato”, come si legge nel celebre "Manifesto dei quattro professori" che Konrad Adenauer aveva sollecitato e coordinato.
E’ interessante confrontare tale posizione con quanto scrive Dahrendorf (1992) in un saggio di qualche anno fa: “La democrazia e l’economia di mercato non bastano. La libertà ha bisogno di un terzo pilastro per essere salvaguardata: la società civile”. La società civile non può essere solamente un "presupposto" per il corretto funzionamento dello stato e del mercato privato, intesi quali unici centri regolatori dell'ordine sociale. I nodi problematici della società italiana che un robusto settore di economia civile dovrebbe essere chiamato a sciogliere sono legati alla sostenibilità sociale del processo di sviluppo. Esso è oggi messa a serio repentaglio, soprattutto nel nostro paese, dall'intensificarsi di tre specifici paradossi sociali della crescita: l'aumento delle ineguaglianze, territoriali e personali, che si accompagna all'aumento della ricchezza e del reddito medio; la crescita senza occupazione (jobless growth), il fatto cioè che l'allargamento della base produttiva non genera più, oggi, automaticamente nuova occupazione; le difficoltà crescenti a soddisfare i bisogni dei cittadini prescindendo dalle loro preferenze ovvero dai loro punti di vista. Pur contraddistinti da diversità specifiche, questi paradossi, hanno in comune due elementi. Nessuno dei tre ha direttamente a che vedere con situazioni di scarsità delle risorse materiali. Essi segnalano piuttosto una situazione di scarsità sociale e - come si sa - scarsità del genere si sanano solo incentivando la fornitura di beni relazionali, di quei beni cioè che costituiscono l'unico efficace antidoto alla devastante competizione posizionale. Il secondo elemento è che tutti e tre quei paradossi costituiscono una seria minaccia alle ragioni della libertà intesa in senso positivo.
Abbiamo bisogno di dilatare la concezione di economia di mercato che una certa vulgata della tradizione di pensiero liberale ci ha tramandato, quella secondo cui il mercato è coestensivo alla sfera delle sole imprese private, vale a dire delle sole organizzazioni che operano per il profitto.
Certamente il capitalismo postula e garantisce il libero mercato, ma il viceversa non è vero, come il grande economista L. Walras (1874) fu tra i primi a riconoscere esplicitamene a livello propriamente teorico col suo modello di equilibrio economico generale. Invero, già Adam Smith ne La ricchezza delle nazioni (1776) aveva chiarito che la divisione (verticale) del lavoro non esclude, di per sé, l’eventualità che possa essere il lavoro ad “assumere” il capitale e ad esercitare così il controllo sull’impresa. E’ dunque pienamente condivisibile l’affermazione con cui Hansmann (1996) chiude il suo lavoro: “La libertà di impresa è una caratteristica essenziale delle più avanzate economie di mercato. Il capitalismo, al contrario, è contingente; è semplicemente quella particolare forma di proprietà dei patron che più spesso, ma non sempre, si dimostra efficiente sulla base delle tecnologie disponibili”. (2005, p.292). Come a dire che l’economia di mercato è il genus di cui il capitalismo è solo una specie. Ovvero, che mentre quest’ultimo trova la sua legittimazione nel principio di efficienza, l’economia di mercato pone la sua legittimazione nel valore della libertà.

Quali sono i punti nodali, le res novae di questa fase storica, che richiedono una lettura attenta per giungere ad individuare linee efficaci di azione?

Ne scelgo tre, non perché siano gli unici, ma perché li ritengo i più urgenti.
Il primo ha a che vedere con una questione ormai nota : il cosiddetto “paradosso della felicità”. Questo concetto venne proposto da alcuni economisti americani diversi anni fa, precisamente nel '75, ed è da allora patrimonio comune. Il paradosso della felicità si può spiegare grazie all'aiuto di un grafico: rappresentando sull'asse delle ascisse il reddito pro capite (il PIL diviso per il numero dei soggetti) e sull'asse delle ordinate un indice di felicità, si ha una curva. L'indice di felicità si ottiene per via statistica; cioè, non è frutto di concettualizzazione, ma di metodologie statistiche basate in parte su parametri oggettivi (tasso di suicidi, rottura familiare, consumo di psicofarmaci, disagio giovanile); in parte su parametri soggettivi (ottenuti tramite surveys, in cui si chiede ad un campione stratificato di soggetti di dare un'opinione in merito al loro benessere, rispetto ad un periodo precedente). La curva indica che quando il reddito pro capite è basso, l'indice di felicità è basso; all'aumentare del reddito pro capite, aumenta anche la felicità media. Quando si arriva ad una certa soglia dimensionale, che varia a seconda del momento storico (all'inizio era 22.000 dollari per famiglia all'anno), ulteriori aumenti di reddito pro capite producono una diminuzione dell'indice di felicità. L'errore sta nel non comprendere che il benessere non dipende solo dalla componente materiale. La nostra felicità dipende sì dai beni materiali, in quanto necessari, ma anche dai beni immateriali, dai beni relazionali e dai beni di uso comune (quelli che in inglese si chiamano commons); il modello neo-consumistico, invece, esalta i beni materiali a scapito degli altri. Aumentando i beni materiali il PIL aumenta, la ricchezza aumenta, ma la gente è sempre più insoddisfatta. Pensiamo, per parlare di beni relazionali, a quanto avviene nei luoghi di lavoro: la nuova battaglia che i sindacati di oggi dovrebbero portare avanti, al di là delle battaglie storiche sulla sicurezza e il salario, riguarda l'elemento relazionale. Per dirlo in una battuta, bisogna dare soddisfazione alle persone; si lavora non solo per mangiare, ma anche per realizzarsi. Che senso ha, dunque, concedere a un lavoratore un aumento di stipendio, senza però rendere flessibile l'orario di lavoro, in modo da consentire una compatibilità con i tempi della famiglia?
La seconda res nova riguarda la democrazia. Oggi, nonostante quello che possiamo pensare, c'è un deficit di democrazia, nel senso che continuiamo a declinare i principi e i valori della democrazia in riferimento alla sola sfera politica e non a quella economica. Non si può essere democratici solo in politica, bisogna esserlo anche in economia. Non è democratica una società nella quale l'unica forma di impresa ammessa è l'impresa capitalistica. I nostri costituenti hanno seguito questa logica nello stilare l'articolo 45 della Costituzione, sulle cooperative: “la Repubblica difende il valore sociale delle cooperative”. Ovviamente, erano altri tempi: riconobbero il valore sociale delle cooperative, mentre sarebbe stato importante riconoscerne anche il valore economico. Non basta dire “noi consentiamo che queste imprese operino, purché rimangano piccole, nella nicchia, e in cambio di questo concediamo lo sgravio fiscale”. Dobbiamo, invece, togliere gli sgravi fiscali e dare parità, cioè dobbiamo far partire la borsa sociale. Perché deve esistere solo la borsa capitalistica a fini speculativi? La borsa, come le attività bancarie, è nata con fini sociali. Io non ho nulla contro la borsa a fini speculativi, a patto che sia regolata; però esigo anche una borsa sociale, cioè una borsa dove possano essere negoziati titoli di solidarietà con i quali le imprese, o cooperative o sociali, vanno a finanziarsi.
Se vogliamo che queste imprese possano funzionare, non dobbiamo “strangolarle” sotto il profilo dell'accesso al credito, dobbiamo bensì dar loro la possibilità di finanziarsi secondo regole diverse da quelle speculative. Se non creiamo una borsa sociale, l'unica forma di finanziamento possibile è la donazione, l'elemosina. Pensiamo ai francescani del 1300, che erano profondamente contrari all'elemosina e ripetevano la famosa frase: “l'elemosina aiuta a sopravvivere, ma non a vivere”, perché vivere è produrre e l'elemosina non aiuta a produrre”. Dobbiamo aiutare le persone ad uscire dalla loro incapacità di vivere ed usare lo strumento finanziario come leva per far questo. La mentalità comune, invece, ci porta a vedere l'elemosina come soluzione al problema della povertà. L'elemosina si può usare in situazioni di emergenza, per un periodo di tempo limitato; non si può pensare di tenere in vita le persone sempre e solo con l'elemosina. Il methodos, parola che in greco vuol dire “via”, deve essere adeguato al fine: se il metodo è sbagliato o viene trascurato, il fine, per quanto buono, non verrà raggiunto. Se ci fosse stato un pluralismo democratico in ambito economico, la crisi di cui oggi stiamo pagando pesanti conseguenze non si sarebbe presentata, o comunque avrebbe avuto dimensioni inferiori. In questa ottica, si capisce il senso di iniziative come il commercio equo-solidale, la finanza etica, le varie forme di microcredito. Simili attività necessitano di essere riconosciute all'interno dell'assetto istituzionale, cioè nel Libro I, Titolo II del Codice Civile. Deve essere tolta quella connotazione pietistica derivante dalla concezione dello stato etico propria del regime fascista; non dobbiamo dimenticare che il nostro Codice Civile venne approvato nel 1942.
La terza res nova riguarda il tema del capitale civile.

Quali sono le componenti del capitale civile che determinano lo sviluppo?

Nella letteratura socio-economica, anche la più affermata, il fattore principale di sviluppo è stato riconosciuto prima nel capitale naturale (risorse naturali come il ferro, il carbone, il petrolio etc.) e questo si è dimostrato vero in riferimento ad una certa fase storica, basti pensare alla Rivoluzione Industriale; poi si è passati al capitale fisico, cioè alle macchine; in seguito, si è parlato di capitale umano, riconoscendo l'importanza dell'istruzione. Tutte queste risposte alla domanda “che cosa determina lo sviluppo?” sono parzialmente vere. Si è dunque passati a riconoscere che all'origine dello sviluppo vi è il capitale civile, il quale innesca gli altri capitali. Il capitale civile è la causa remota, gli altri tipi di capitale sono cause prossime. Le componenti del capitale civile sono tre.
La prima è il capitale sociale, cioè le reti di fiducia tra le persone, la coesione sociale; di questo parla Putnam nel suo famoso libro del 1932, in riferimento all'Italia.
La seconda è il capitale istituzionale, cioè le istituzioni. Come dicono gli inglesi, institutions do matter, cioè le istituzioni sono importanti. Non si tratta solo di istituzioni politiche, come il Parlamento, ma anche di istituzioni economiche, come il sistema bancario, la legge mercantile, il sistema della burocrazia. In Italia abbiamo ancora una burocrazia di stampo napoleonico, che ci costa moltissimo, mentre in Francia un simile modello burocratico è stato eliminato, con il risultato che la burocrazia francese è attualmente la migliore a livello mondiale. Il capitale istituzionale è sicuramente la seconda colonna del capitale civile: un paese che ha delle istituzioni economiche e politiche adeguate è un paese che più facilmente si sviluppa nelle dimensioni di cui parlavamo prima.
La terza componente è la più nuova e ha a che vedere con la matrice culturale-religiosa. Questo ha sorpreso anche gli studiosi più efficaci e attenti, perché, sino a pochi anni fa, girava negli ambienti accademici e nei centri di ricerca la cosiddetta “tesi della secolarizzazione”, secondo cui la religione – intesa come insieme organizzato di credenze – era un fatto esclusivamente personale e non aveva alcun ruolo da giocare né nella sfera pubblica, né ai fini dello sviluppo. Questo era determinato da altri elementi: il ferro, l'acciaio, il petrolio, la scuola etc. Ecco la novità degli ultimi anni: si è passati alla “tesi della desecolarizzazione”, che ha colto in castagna tutti coloro che avevano pensato che lo sviluppo economico avrebbe eliminato simili credenze. Negli ultimi dieci/quindici anni, invece, con fastidio di molti, questa tesi è stata completamente ribaltata. Mai come in questi tempi la religione, intesa come matrice culturale, è tornata ad essere importante. Il punto è che la forza principale dello sviluppo di un paese o di una comunità è il capitale civile. Ciò non vuol dire che gli altri capitali non siano importanti, ma che vengono dopo: abbiamo esempi storici molto importanti. La Rivoluzione Industriale, in Inghilterra, è scoppiata solo quando una particolare matrice culturale, legata all'utilitarismo (Hobbes, Mandeville Bentham) ha funzionato da spinta. Ciò vuol dire che non sono gli incentivi di per sé, ma la percezione che gli agenti economici hanno degli incentivi a fare la differenza. Se ti do l'incentivo, ma tu non hai la cultura adeguata, non saprai cosa farne, come gli antropologi economici da tempo ci hanno confermato.

Queste sono le domande comuni per le interviste:

La crisi internazionale si somma alle difficoltà specifiche del nostro paese. Quale contributo si può ricavare dal pensiero economico italiano?

Pensiamo ad iniziative quali: deleveraging delle banche; assicurare i conti di deposito; sanzionare gli amministratori; muovere passi decisivi verso una nuova architettura del sistema finanziario mondiale; prendere misure concrete per scongiurare il rischio che alla crisi in atto si aggiunga quella delle carte di credito Usa, etc. Tutto ciò è utile e va urgentemente attuato, ma non basta, perché questa crisi ha ridotto, in modo impressionante quella specifica componente del capitale sociale che è la fiducia generalizzata, quella cioè a largo raggio. Sappiamo da tempo che un’economia di mercato, per funzionare, può fare a meno di tantissime cose, ma non della fiducia, perché quella di mercato è un’economia contrattuale e senza fiducia reciproca non c’è contratto che possa essere siglato. Dopotutto, anche i CDS e gli hedge funds – creati apposta per dare garanzie – postulano contratti, sia pur di forma particolare. Mai si dimentichi che il mercato è un consumatore, non un produttore di fiducia, anche se è vero che istituzioni mercantili ben disegnate favoriscono la diffusione e l’amplificazione delle relazioni fiduciarie. Un indicatore grezzo, ma eloquente, della mancanza di fiducia ci viene dalla constatazione che, nel mercato interbancario, perfino le banche che hanno liquidità in eccesso hanno cessato di concedere prestiti ad altre banche, preferendo acquistare titoli di Stato certamente meno remunerativi.
E’ alla società civile che spetta il compito di riannodare le “corde” tra tutti coloro che operano nel mercato e che questa crisi ha maldestramente spezzato. Si rammenti che fiducia, dal latino fides, significa letteralmente “corda”, come Antonio Genovesi nel suo Lezioni di economia civile del 1765 aveva lucidamente chiarito. Ma da dove partire per cercare di portare a termine un compito del genere? Dalla ricentratura sia del discorso economico sia del nuovo disegno istituzionale sulla categoria di bene comune. Un tempo assai presente nel dibattito culturale, questa categoria è stata finora sistematicamente confusa – purtroppo anche dagli addetti ai lavori – con quella di bene totale oppure di bene collettivo. Niente di più fuorviante e quindi deleterio (cfr. S. Zamagni, L’economia del bene comune, Citta Nuova, Roma, 2007). Che la nozione di bene comune conosca, oggi, sull’onda delle vicende che qui si è cercato di interpretate una sorta di risveglio, di rinnovato interesse è cosa che ci viene confermata da una pluralità di segni e ciò apre alla speranza. Non c’è proprio da meravigliarsi di ciò: quando si arriva a prendere atto della crisi di civilizzazione che incombe, si è quasi sospinti ad abbandonare ogni atteggiamento distopico, osando vie nuove e di pensiero e di azione.

Per rilanciare l'economia mondiale quale insegnamento si può trarre dalla storia economica?

Quando a partire dal 1984, la più parte dei paesi europei hanno iniziato a seguire gli Usa sulla via della deregulation finanziaria, forse nessuno aveva intravisto il pericolo mortale che ne sarebbe derivato: la recisione dei legami tra democrazia e mercato. Ma un mercato che espunge dal proprio orizzonte la democrazia per far posto alla sola efficienza – nel caso di specie, nelle forme della massimizzazione dei rendimenti – sospinge l’economia su un sentiero di sviluppo oligarchico, il che è quanto di più lontano possa esserci dalla prospettiva liberale. Il paradosso del liberismo – inteso in senso stretto – è che esso si sega il ramo su cui è assiso: mirando esclusivamente all’efficienza, esso dimentica che democrazia e libertà sono valori ad essa superiori. Ecco perché già Adam Smith insisteva che un ordine sociale autenticamente liberale aveva bisogno di due mani per durare nel tempo: invisibile l’una – quella di cui tutti parlano, anche se spesso a sproposito forse per una carente capacità interpretativa – e visibile l’altra – quella dello Stato che deve intervenire in chiave sussidiaria, come diremmo oggi, tutte le volte in cui l’operare della mano invisibile rischia di condurre verso la monopolizzazione o oligopolizzazione dell’economia. Un solo dato a tale proposito: le prime cinque banche americane (Citigroup, Bank of America, J.P. Morgan, Wachovia, HSBC) controllano il 97% dell’industria dei derivati e si accollano il 90% del rischio implicito. Si tenga a mente che nella Ricchezza delle Nazioni del 1776, la metafora della mano invisibile viene citata una sola volta, mentre parecchie sono le pagine che A. Smith dedica ai modi di intervento dello Stato.

In tempo di crisi economica diventa ancor più importante lo sviluppo locale. Quali leve muovere per innescare lo sviluppo autonomo di aree produttive territoriali fortemente specializzate, come lo sono quella riminese riguardo turismo e manifatturiero?

Non solo l'ente pubblico, ma tutta la comunità cittadina, con le sue varie articolazioni, deve farsi carico dello sviluppo locale. Come è noto, la globalizzazione ha fatto rinascere - contrariamente alle aspettative - l'importanza del territorio come spazio non solo civile, ma anche e soprattutto economico. Ciò è avvenuto in parallelo al trasferimento di quote di potere dal livello centrale a quello locale. Sono le cosiddette "economie di agglomerazione" a rendere le città attrattori sempre più importanti delle attività di impresa. Una città bene organizzata, sotto i profili della viabilità, dei servizi pubblici, della logistica, è oggi uno dei fattori di vantaggio competitivo più rilevanti. È ormai acquisito, infatti, che la nuova competizione, prima ancora di riguardare la singola impresa, ha come suo primo riferimento il territorio.
È un fatto che le attività produttive ad alta intensità di conoscenza sono, quasi sempre, attività cittadine.
Rimini ha una storia straordinaria e, dal secondo dopoguerra, ha conosciuto due diversi periodi di successo, ciascuno guidato da forze e fattori differenti. Ma da un decennio a questa parte, Rimini pare aver perso la voglia di credere in sé, al proprio potenziale. Come è potuto accadere tutto ciò? Senza rinunciare a risposte più articolate, si può dire comunque che non è certo la carenza di risorse economico-finanziarie né di quelle umane a spiegare il fenomeno. Di entrambi i tipi di risorse Rimini è ampiamente dotata. Piuttosto, quel che è mancato tra i ceti dirigenti sociali, economici e politici è un sistema di valori condivisi e di convincimenti che interpretassero il cambiamento in atto come un'opportunità di cui giovarsi per imprimere al processo di sviluppo una direzione ben precisa. È accaduto così che i lusinghieri risultati raggiunti nei due periodi di successo venissero interpretati come una sorta di legittimazione dello stato stazionario. Di qui la pervasività e l'incisività della cultura della rendita, prima ancora che della prassi della rendita, in tutte le sue molteplici espressioni. Il conservatorismo, che sempre accompagna l'ideologia della rendita, non ha risparmiato il ceto produttivo locale, indebolendone l'afflato imprenditoriale. In economia, dove se ci si limita a difendere le posizioni conquistate, si finisce con il restare prigionieri del proprio modello di sviluppo.
Le banche possono fare molto in questo momento perché quando il ciclo economico è discendente la distribuzione del credito è uno dei fattori decisivi per la ripresa. In particolare la banca locale ha un ruolo strategico in quanto ridistribuisce sul territorio il denaro raccolto.

I Comuni, le Provincie, storicamente sono state il riferimento dell'Italia, il tessuto sul quale si è creato quel municipalismo naturale che ha costruito l'Italia. Quali sono i punti di forza ed i limiti delle azioni che dal livello locale tentino di fronteggiare la crisi -oggi di tipo internazionale e finanziario- e vincere così la sfida?

"Le industrie creative" tendono oggi a raggrupparsi attorno a quelle città che sanno offrire opportunità economiche, sociali e culturali adeguate. Non solo, ma è la città il luogo per eccellenza in cui si forma e si afferma l'identità culturale di una comunità di persone e nel quale si coltivano le virtù civiche. Ecco perché il governo di una città "creativa" non può cioè limitarsi alla gestione dell'esistente, né accontentarsi di mere operazioni di tipo cosmetico. La nozione di "amministrazione condivisa" di cui parlano ad esempio Sabino Cassese e Gregorio Arena raccoglie proprio l'esigenza di saper coniugare le radici di una città - che dicono della memoria - con le ali, che dicono della capacità di osare vie nuove. L'idea è basicamente questa: l'ente pubblico cede quote di potere ai corpi intermedi della società in cambio dell'assunzione da parte di questi di precisate e concordate responsabilità. I sistemi spontanei di regolazione delle attività a livello locale non sono più sufficienti, oggi, ad assicurare una governance efficace per uno sviluppo robusto e sostenibile. Occorrono soggetti che sappiano svolgere la funzione di coordinatori e soprattutto di addensatori sociali. Serve facilitare la creazione di sistemi di partenariato fra soggetti pubblici e privati, profit e non profit. Si pensi allo straordinario successo realizzato, in California, dalla Joint Venture Sylicon Valley Network. Non si continuerebbe a parlare ancor'oggi nel mondo del modello della Sylicon Valley se enti locali della California, Università e associazioni d'impresa non avessero imboccato la via dell'amministrazione condivisa.
Ma la crisi attuale costituisce un’enorme opportunità anche per quanto riguarda la precisazione e la correzione di alcune dinamiche distorte del mondo economico e non solo. Si tratta infatti di una crisi sistemica, dovuta alla invasiva presenza, nel mondo della globalizzazione, della finanza, divenuta capace di modificare i valori e i comportamenti delle persone. La crisi dunque possiede cause remote che vanno al di là dei fatti contingenti ben noti. Occorre comprendere come il concetto di Bene Comune, proprio della Dottrina Sociale della Chiesa, debba tornare a fare da punto di riferimento, ridefinendo la visione sociale e personale delle dinamiche antropologiche.
In particolare si tratta di comprendere come oggi il mercato in realtà non sia affatto libero. Settori importanti del mercato, come la cooperazione sociale, le associazioni e altri liberi soggetti (nati nella società civile e rilevanti dal punto di vista antropologico, culturale, sociale ed economico) non sono adeguatamente riconosciuti nella loro valenza economica. Per il terzo settore questa crisi rappresenta un momento di crescita, dal quale l'economia civile uscirà rafforzata. Il non profit, in particolare, sta incominciando a capire che non può legare la propria attività al ciclo economico, ma deve diventare autonomo e, accanto all'azione di trasferimento, che è propria del privato sociale, deve imparare a produrre ricchezza, assumendo il ruolo di impresa civile.
Stretti tra l'esplosione di nuovi bisogni e la contrazione delle risorse ci si trova in una fase di passaggio, nella quale il privato sociale sta dimostrando una buonissima capacità di reazione. Il terzo settore deve pensare a migliorare le loro capacità di vita delle persone e non può limitarsi a migliorare le condizioni delle loro vite. Tra questi due aspetti c'è una differenza sostanziale. Ad oggi, sia nell'immaginario collettivo, sia nella prassi operativa prevale ancora la logica della redistribuzione: di fronte alle emergenze il non profit da un lato riceve, dall'altro eroga. Questa è la funzione del privato sociale, che sta assolvendo bene al proprio compito. Può bastare o la recessione impone altri parametri? La crisi ci obbliga a capire che i tempi della funzione di trasferimento si stanno esaurendo e che la sfida del futuro è quella di migliorare le capacità di vita, attraverso il privato civile.

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