a cura di Carlo Pantaleo
Associazione Centro Studi Nuove Generazioni
Federico Caffè, un economista per la Costituzione, un profeta del capitalismo “storico”
tenuto da Giuseppe Amari Centro Studi C.G.I.L.
Il quarto dei seminari “Governare la crisi, il contributo del pensiero economico italiano” ha avuto come titolo: Federico Caffè, un economista per la Costituzione, un profeta del capitalismo “storico”. Il relatore, Giuseppe Amari, è stato allievo di Federico Caffè e Mario Tiberti all’Università “La Sapienza” di Roma, ha lavorato presso istituti di credito della capitale e ha alternato al lavoro aziendale incarichi sindacali; attualmente in pensione collabora con la C.G.I.L. confederale. Ha curato il catalogo informatizzato delle opere di Caffè presso il Dipartimento di Economia pubblica dell’Università “La Sapienza” e ha curato, con postfazione, insieme a Nicoletta Rocchi, il volume antologico con introduzione di Guglielmo Epifani “Federico Caffè, un economista per gli uomini comuni”. E’ di questi giorni la pubblicazione di un secondo volume Federico caffè, un economista per i nostri tempi, sempre a cura di Giuseppe Amari e Nicoletta Rocchi e presentazione di Guglielmo Epifani. Questo volume contiene anche gli atti del convegno, in onore dell’economista, organizzato dalla CGIL nazionale e dalla facoltà di Economia “La Sapienza” Università di Roma, tenuto a Roma il 16 – 17 maggio del 2007.
L’autore trattato è Federico Caffè (1914-1987) che fu grande insegnante, economista, intellettuale, con il coraggio della libertà anche nella solitudine del riformista. Si è laureato con lode in Scienze Economiche e Commerciali presso l'Università di Roma nel 1936, fu assistente volontario alla cattedra di Politica economica e finanziaria dal 1939, nell'anno accademico 1946/47 ha vinto una borsa di studio per un soggiorno presso la London School of Economics. Libero docente di politica economica e finanziaria nel 1949, nello stesso anno è stato nominato assistente incaricato alla cattedra di Scienza delle Finanze di cui era titolare G.. Del Vecchio. Vincitore nel 1954 del primo concorso a cattedra di Politica economica e finanziaria tenutosi dopo la fine della guerra, è stato professore straordinario della stessa disciplina a Messina passando poi all'insegnamento di Economia politica a Bologna, infine è stato chiamato a Roma nel 1959 come professore ordinario di Politica economica e finanziaria presso la facoltà di Economia e Commercio. Dal 1970 è stato socio corrispondente dell'Accademia nazionale dei Lincei ed è divenuto socio nazionale nel 1986.
Alla sua lunga e intensa carriera universitaria si è affiancata un'altrettanto lunga e prestigiosa carriera pubblica che lo vide per un breve periodo capo di gabinetto del Ministro della Ricostruzione Meuccio Ruini nel Governo Parri. Fu sempre in stretto contatto e in profonda amicizia con Ruini che presiedette il Comitato Interministeriale per la Ricostruzione (CIR) e la Commissione per la Costituzione che redasse la Carta costituzionale italiana. Oltre all'influenza esercitata su Ruini, svolse ruoli importanti ai tempi della Costituente e della prima ricostruzione del Paese, e va ricordata la sua collaborazione col movimento dossettiano. Leo Valiani lo riconoscerà come il "loro più ferrato economista". La sua dedizione all'Università e gli incarichi ricoperti, non lo hanno mai allontanato da un continuo impegno civile che lo ha visto antifascista negli anni della guerra, a contatto con le forze democratico-liberali e azioniste nel dopoguerra, e, come già detto, vicino al riformismo cattolico di Cronache Sociali di Dossetti, La Pira e Fanfani, e infine, vigile e critico consigliere del sindacato unitario. Su “Cronache Sociali”, di cui fu anche diffusore in Inghilterra, scriverà alcuni importanti articoli tra cui “Consiglio economico nazionale e problemi della pianificazione” (Caffè era membro di questo organismo, predecessore del CNEL). In quegli ambienti politici prima ricordati, ma anche in quelli della sinistra socialista e comunista - in pieno clima costituente e di impegno per la Ricostruzione, di cui fu un riservato ma indubbio protagonista - Caffè diffuse il pensiero keynesiano e la conoscenza dell’ “esperimento” politico inglese per un “Social service state”, lo stesso fece nell’insegnamento economico universitario, adottando, tra i suoi primi libri di testo, un volume dell’economista danese Friedrich Zeuthen, ispirato al pensiero keynesiano e all’economia del benessere.
Non meno rilevanti sono stati gli incarichi che gli vennero affidati come funzionario del Servizio Studi della Banca d'Italia dove venne assunto nel 1937. Nel 1954, con la sua nomina a professore straordinario, lascia l’impiego in Banca d’Italia, diventando consulente del Governatore, incarico che mantenne sino al 1969 per poi dedicarsi esclusivamente all’insegnamento. Anni dopo il Governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, confesserà di aver sempre sottoposto a Federico Caffè, anche quando aveva lasciato la Banca e la consulenza, le sue annuali “Considerazioni finali” e lo riconoscerà come “il nostro maggiore economista del suo tempo”. Fu funzionario dotato di spirito pubblico in grado di operare in assoluta indipendenza dai condizionamenti degli interessi particolari. Per più di trenta anni fu a contatto di uomini come Einaudi, Menichella e Carli partecipando ad innumerevoli attività, dai negoziati con la BIRS per i finanziamenti nell’immediato dopoguerra, all’esecuzione degli aiuti ERP, ai rapporti con l’OECE (poi OCDE) e con il FMI, all’esecuzione dei deliberati della conferenza di Messina del 1955 (preparatoria dei trattati di Roma istitutivi della CEE), alle liberalizzazioni europee nei confronti dell’area del dollaro, alla scelta di illustri studiosi stranieri per i seminari presso la Banca. Inoltre dalla data della sua istituzione nel 1965 e sino al 1975 ha diretto l'Ente Einaudi per gli studi monetari bancari e finanziari. Ha curato con grande erudizione e gusto filologico la raccolta di opere di F. Ferrara, di F. S. Nitti e di L. Einaudi nonché significative raccolte di saggi di autori italiani e stranieri.
Critico dell’impostazione individualista dell’economia, fece di concetti come “piena occupazione” e “costi sociali” i pilastri di infinite elaborazioni politico-economiche. Tali concetti sono colonne portanti della parte programmatica della Costituzione italiana. Intese il riformismo, secondo una tradizione del pensiero liberalsocialista, capace di coniugare libertà e i diritti civili e politici con quelli sociali ed economici, in cui l’intervento pubblico, anche incisivo, è correttivo delle storture e dei limiti del mercato e non può considerarsi un’indebita ingerenza. La lettura di Caffè delle vicende economiche italiane parte dalla constatazione che in Italia è mancata una tradizione genuinamente riformista alla Webb, Pigou, Keynes, Beveridge, ma è prevalsa, a livello teorico la concezione dei Ferrara, Pantaleoni, Einaudi, ecc., spesso strumentalizzata da corposi interessi monopolistici. Federico Caffè è scomparso nella notte fra il 14 ed il 15 aprile 1987. Autore di oltre 200 pubblicazioni, fra le quali si segnalano le seguenti: “Vecchi e nuovi indirizzi nelle indagini sull'economia del benessere”; “Saggi critici di economia”; “Politica economica - Sistematica e tecniche di analisi”; “Teorie e problemi della politica sociale”; “Un'economia in ritardo”; “Lezioni di Politica Economica”, recentemente ristampate dalla Bollati Boringhieri; “L'economia contemporanea”; “In difesa del Welfare State”; “La solitudine del riformista”.
Quelle che seguono sono le domande che abbiamo posto a Giuseppe Amari nello specifico su Federico Caffè, e le altre, comuni anche agli altri relatori, sull'attuale situazione.
DOMANDE
Rispetto ai valori con cui è stata voluta la nostra Costituzione, Federico Caffè quali “ritardi” e rischi intravedeva nell’economia italiana?
Come si ricorda nel profilo biografico, Federico Caffè assistette con “simpatia non scevra di adesione ideologica” all’esperimento di “Social service state” - come chiamava allora il welfare state - che il governo laburista inglese di Clement Attlee e Aneurin Bevan ( sindacalista e padre della riforma sanitaria) andava conducendo. Un esperimento che costituiva “un significativo completamento della struttura democratica che, per essere effettivamente tale, deve ad un tempo avere contenuto politico formale e contenuto economico sostanziale”. Erano le idee del liberalsocialismo dei Webb, di Beveridge e di Keynes che avevano ormai conquistato i paesi di lingua inglese nelle due sponde dell’Atlantico. Piena occupazione, welfare state, intervento pubblico per correggere i limiti e le ingiustizie del mercato, rispondevano anche al comune sentire di maggiore socialità e di partecipazione democratica richieste dall’impegno bellico e necessarie per la ricostruzione su basi più eque rispetto al passato. In Italia purtroppo non andò così, non solo per ragioni internazionali dovute alla suddivisioni in blocchi, ma anche per limiti delle forze progressiste. La lettura di Caffè, proprio per gli incarichi allora ricoperti, è particolarmente autorevole. In sostanza accusa il pensiero economico dominante, rappresentato innanzitutto da Einaudi, Bresciani Turroni, Corbino, di ritardo scientifico perché si erano rinchiusi in una sorta di “liberismo dogmatico”, rimanendo fuori dagli sviluppi del nuovo pensiero economico che era quello keynesiano. Più articolato invece il giudizio su Del Vecchio, condizionato da Einaudi al Governo, ma più aperto scientificamente e con il quale rimase sempre in grande amicizia e colloquio dottrinale, tanto da dedicargli un volume di storia del pensiero economico italiano. Ricordava che gli stessi liberali inglesi come il Robertson criticavano apertamente i colleghi liberali italiani per la loro politica economica. Ma accanto e dietro a questo “liberismo di cattedra” di economisti dei quali il giovane Caffè nutriva, ricambiato, stima per la coerenza ed integrità intellettuale, si andavano ricostituendo e rafforzando potenti interessi corporativi industriali e finanziari di un non mai dismesso assetto oligopolistico. Se ne ha significativo riscontro nella denuncia di resistenze, opposte alla Commissione economica per la Costituente, da parte di ambienti Iri e bancari. Le forze progressiste di allora non seppero cogliere il momento favorevole ed utilizzare la spinta popolare per affrontare le necessarie riforme come il cambio della moneta, l’imposta patrimoniale, ma soprattutto il pieno utilizzo degli aiuti alleati per il rilancio dell’economia e la piena occupazione. Si svuotarono progressivamente i consigli di fabbrica e non si mise in campo quella proposta di programmazione democratica e decentrata delineata dal Comitato Interministeriale per la Ricostruzione (CIR). La successiva rottura dei governi di coalizione rese poi impossibili quelle riforme. Si perseguì una politica per ceti medi e non furono intaccate quelle concentrazioni di potere che pure la Commissione economica aveva messo in evidenza. Così gli sviluppi economici successivi, anche con la sorprendente tumultuosità degli anni sessanta, mantennero i gravi squilibri sociali e territoriali, neppure a tutt’oggi superati. Caffè, su quella esperienza ritornò sempre con funzione critica ed ammonitrice nei confronti delle forze progressiste e del sindacato affinché non seguissero la politica del “tempo perduto”, non trascurassero il necessario consenso del cittadino comune per il concretamento di riforme incisive. Non mancò di denunciare le ricorrenti strumentalizzazioni degli interessi costituiti nei confronti di economisti prigionieri di schemi teorici astratti, o che si disperdessero in discussione talvolta sterili, o si attardassero in inutili perfezionismi, dimenticando i drammatici problemi “della miseria e della ignoranza” che sono tra di noi. Come rilevò in un suo scritto in Italia c’è sempre stato un notevole scarto una politica economica potenzialmente perseguibile e quella concretamente effettuata.
Quali risposte e priorità proponeva per uno sviluppo rispettoso dei diritti?
La ritardata (di molti decenni rispetto ad altri paesi) approvazione di una legislazione antimonopolistica, e la messa in campo di istituzioni (capitalistiche) come l’ Autorità Antitrust e la Consob, e la loro successiva vita stentata, hanno perpetuato un funzionamento del tutto distorto del mercato della produzione e dei servizi, soprattutto nel settore bancario e finanziario. Sono rimaste celebri le denuncie di Caffè nei confronti degli “incappucciati”, frequentatori assidui dei paradisi fiscali e di diritto. Agevolati da un sistema bancario ben presente su quelle piazze. Alle PP.SS. - di cui non fu mai un liquidatore riconoscendole anche dei meriti - criticava le politiche imitative dell’imprenditoria privata, anche nei suoi aspetti più discutibili. La funzione pubblica si giustificava se queste aziende erano capaci di muoversi con un ottica diversa, che svolgessero un’azione anticiclica e riequilibratrice rispetto al mercato. Utilizzando i fondi pubblici di dotazione operavano, non di rado, in modo non trasparente, acquisendo o vendendo aziende, spostando così il confine tra pubblico e privato in modo arbitrario e senza il necessario consenso democratico. Oggi il sistema delle PP.SS. non esiste praticamente più, ma rimane del tutto valido il suo insegnamento sulla chiara distinzione delle due sfere. Questo ci riporta al senso del “pubblico” che in Italia è sempre stato carente, come ha di recente ricordato anche Gustavo Zagrebelsky. Lo stesso dibattito privato e pubblico, mercato e Stato non tiene abbastanza conto di seri studi economici e sociali (C. Offe e J. O’Connor) che hanno dimostrato come nel capitalismo moderno le due realtà siano strettamente intrecciate e funzionali le une alle altre. In Italia questo rapporto ha sempre avuto connotati ambigui. Lo possiamo constatare dalla cronaca dei nostri giorni. L’ondata di privatizzazione anche in campi di chiara competenza pubblica, non ha portato a minore speco e corruzione. Caffè più volte ricordò che quelle scelte di politica economica dell’immediato dopoguerra furono le anticipazioni delle successive evasioni e condoni fiscali, dell’esportazione dei capitali, della mancata assegnazione di priorità ai problemi interni a cominciare dalla ristrutturazione produttiva e dal suo equilibrio sociale e territoriale. Mentre, affidandosi alla ripresa indotta dall’estero, si finiva per ricadere nel vincolo della bilancia dei pagamenti, e quindi nelle ricorrenti strette creditizie.
La ripresa economica ed obiettivi come quelli della maggiore produttività venivano perseguiti con la compressione salariale e quella dei diritti sindacali. Ad un miglioramento di questi ultimi e ai tentativi di espansione democratica secondo gli obiettivi programmatici della prima parte della Costituzione, spesso si è risposto con lo sciopero degli investimenti, la fuga dei capitali all’estero, ed anche con la “notte della Repubblica”. Caffè lamentava la mancanza di una politica attiva del lavoro in generale e di quella giovanile in particolare. Scrisse continuamente sull’argomento offrendo analisi e proposte concrete. Dalla metà degli anni settanta, con il declino, a livello accademico, del pensiero keynesiano, e la correlata espansione del liberismo trionfante, Caffè condusse una lunga ed incessante battaglia sul piano scientifico e su quello pubblicistico, scrivendo su giornali che ne garantissero l’autonomia, contro quelle dottrine e quelle politiche. Dimostrando la poca originalità delle prime, salvo una più raffinata strumentazione, e ricordando le precedenti confutazioni sul piano teorico e su quello storico. Delle politiche neoliberiste denunciava la regressione democratica e lo sfruttamento delle fasce sociali più deboli sul piano interno e dei paesi più poveri a livello internazionale.
Caffè non di rado si è richiamato a Luigi Einaudi, malgrado le opposte posizioni sulla teoria keynesiana. In Federico Caffè il riformismo socialista e liberale quali segni devono dare di "sostanziale concordia"?
Qualcuno ha voluto vedere una certa contraddittorietà nei rapporti di Caffè con alcuni grandi liberali e segnatamente con Einaudi. Caffè, una volta ricordò il dibattito “elevatissimo” tra Croce e Einaudi, e cioè se il liberalismo, essendo una categoria dello spirito, fosse al di sopra di un determinato assetto economico, secondo Croce, oppure non potesse essere disgiunto dal liberismo di mercato, secondo la concezione di Einaudi. Caffè, in questo, era più dalla parte di Croce. Mentre, al contrario, nella discussione tra Croce e Calogero in merito al liberalsocialismo, che Croce coerentemente considerava un “ircocervo”, Caffè era più dalla parte di Calogero. Ma, d’altro canto, Caffè ricordava spesso un concetto di Luigi Einaudi secondo il quale “le libertà sono solidali”. Cioè i diritti civili e politici non potevano essere disgiunti da quelli sociali. In realtà il dissenso con Einaudi non stava nel riconoscimento dei valori fondamentali perché i suoi ideali ricordava Caffè erano incompatibili con il “paternalismo conformistico” e il “perfezionamento dall’alto”, mentre richiedono e citava Einaudi “che il perfezionamento venga dal basso e consista in una elevazione spirituale, intima, profonda dell’individuo, reso capace di vivere in una vita collettiva ognora più ricca ed alta”. Era in dissenso perché Einaudi (a cui associava su questo anche De Gasperi) aveva una concezione del capitalismo “ideale”, che rispecchiava più la realtà delle valli Svizzere, in cui Einaudi era stato esule durante il Fascismo, (e quelle Trentine dello statista cattolico) e non del capitalismo “storico” così come si era ormai conformato nell’economie occidentali. Capitalismo “storico” in cui si confrontavano ormai grandi attori e concentrazioni di potere per i quali si parlava di Big Business, Big Government, Big Labour. Una configurazione ed una dinamica che già G. Masci, con cui si era laureato, aveva descritto nell’anteguerra. Lo sviluppo della persona e la “liberazione” delle sua “capacità” si dovevano quindi inevitabilmente confrontare con una realtà sociale complessa, in cui sviluppare relazioni intersoggettive e politiche complesse. Non a caso Caffè seguiva con attenzione gli sviluppi della sociologia, come per altro della cultura in generale come strumenti di maggiore comprensione di una realtà multiforme. Citava il suo amato Montale nel considerare inutile la ricerca dell’ “unica” chiave dell’universo; universo che non poteva essere rinchiuso in un’unica disciplina, ad esempio economica (come pure alcune recenti teorie economiche vorrebbero), e questa, a sua volta, rinchiusa nello spazio del mercato. A questo riduzionismo si oppose sempre poiché “La forza contaminante del denaro e del potere - diceva - non crea meramente problemi di imperfezioni del mercato, ma ne influenza l’intero funzionamento. Poiché il mercato è una creazione umana l’intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé distorsivo e vessatorio”. Ed ancora “ le decisioni economiche rilevanti non sono il risultato dell’azione non concordata delle innumerevoli unità economiche operanti nel mercato, ma del consapevole operato di gruppi strategici in grado di limitare l’offerta ed influire sulla domanda, orientandola a loro piacimento; il mercato è tanto onesto nel riflettere le decisioni dei singoli quanto può esserlo una votazione in cui alcuni elettori abbiano una sola scheda ed altri ne abbiano più d’una …”
Fiducioso nelle idee e nel confronto, anche a costo della solitudine, quale insegnamento si trae dalla sua "lezione di vita" e per il welfare futuro?
Caffè condivideva e ripeteva spesso l’opinione di Keynes secondo il quale le idee prima o poi prevalgono sugli interessi costituiti. Questo spiega anche perché dopo quel breve, ma intenso impegno pubblico, si volle interamente dedicare all’insegnamento e a farsi il consigliere del cittadino, anziché del principe. Caratteristica del suo insegnamento è stata quella dell’esame critico e documentato. Critico di “paradigmi di cui si volesse sproporzionatamente accrescere le capacità esplicative” e critico di “politiche economiche ritenute inevitabili solo perché dettate da potenze egemoni”. Documentato, perché, secondo l’insegnamento di Del Vecchio, l’economia era immersa e si svolgeva, come tutte le scienze sociali, nella storia, pur senza risolversi in essa. A conclusione di un suo corso di lezioni - lo possiamo sentire dalla sua viva voce nel documentario sulla sua vita Quel silenzio che ancora ci parla, allegato ai volumi pubblicati dalla Ediesse - invitava gli studenti a non cedere mai agli “idoli del momento”, ai “luoghi comuni”, alle “frasi fatte”.
Fermo nei principi, era tollerante nel confronto tra le diverse “scuole” di pensiero, i cui aderenti invitava al confronto pacifico e “non violento”. Coerentemente, denunciava la cultura come “venatio”, la caccia cioè a facili e magari ben retribuiti riconoscimenti da parte dell’intellettuale e la caccia dei poteri forti, soprattutto quelli economici, nei confronti della cultura e della ricerca scientifica. Questo spiega anche la sua intransigente posizione di difesa della scuola pubblica, dell’accesso aperto a tutti e per l’indipendenza della scuola, innanzitutto universitaria, dagli interessi economici.
Caffè si può sicuramente accostare a quegli intellettuali che, di recente, Ralph Dahrendorf, ha chiamato “gli erasmiani”; coloro che hanno “il coraggio della libertà nella solitudine, la capacità di convivere con le contraddizioni, la facoltà di coniugare osservazione e impegno, la passione della ragione”. In merito al welfare state ho già ricordato il suo primo incontro con l’esperimento inglese e si può dire ha rappresentato un punto focale dello studio e della riflessione del Nostro. Welfare state seguito anche nelle sue vicende estere ed in particolare nei paesi scandinavi. Qui mi limito a riportare un brano dalla su Introduzione a In difesa del “welfare state”, uno dei suoi ultimi scritti (Rosenberg & Sellier, Torino, 1986): “ L’insistere su una politica economica che non escluda, tra gli strumenti da essa utilizzabili, i controlli condizionatori delle scelte individuali; che consideri irrinunciabili gli obiettivi di egualitarismo e di assistenza che si riassumono abitualmente nell’espressione dello Stato garante del benessere sociale; che affidi all’intervento pubblico una funzione fondamentale nella condotta economica; può dare l’impressione di qualcosa di datato e di una inclinazione al ripetitivo e al predicatorio … Tuttavia, non è improbabile che questi punti fermi di una concezione economico-sociale progressista, anche se oggi sembrino essere eco sbiadita di un pensiero attardato, si ripresentino – in realtà si stiano già ripresentando – sotto certi aspetti diversi: come critica ad un profitto considerato avulso da preoccupazioni di indole sociale; come attività di volontariato ispirata da un’etica radicata nei valori della trascendenza; come rifiuto di un individualismo spinto a tal punto da perdere ogni contatto con un’economia ‘al servizio dell’uomo’ ”.
Queste sono le domande comuni per le interviste:
In questo autore quale contributo al pensiero economico italiano si riconosce nella sua azione e riflessione?
Dalla lettura degli scritti di Caffè dell’immediato dopoguerra, emerge ormai l’economista già maturo, fermo nei suoi valori e nelle acquisizioni analitiche che declinerà poi successivamente con un impegno e coerenza che non credo abbia uguali. Erano - abbiamo visto - le idee del riformismo liberalsocialista di Beveridge, di Pigou e di Keynes. Ne emergeva la necessità di un consapevole intervento pubblico correttivo dei limiti del mercato a livello microeconomico e a quello macroeconomico. Il mercato da solo non teneva conto delle “esternalità” e non era in grado di fornire i pur necessari “beni pubblici”. I rendimenti crescenti inducevano all’ampliamento delle imprese con un assetto oligopolistico del mercato lontano da quello schema di “perfetta concorrenza”. A livello macroeconomico Keynes aveva dimostrato che il capitalismo poteva trovare il suo equilibrio a livelli di sottoccupazione con distribuzione iniqua ed arbitraria dei redditi e delle ricchezze. L’intervento pubblico si rendeva quindi necessario per lo stesso miglior funzionamento del sistema e per attenuare l’irriducibile incertezza ad esso connaturato. Incertezza ed instabilità accentuate dall’erratico andamento dei mercati finanziari e dai movimenti internazionali dei capitali.
Il contributo analitico forse più originale e anticipatore al pensiero economico che viene generalmente riconosciuto a Caffè, è stato quello del rifiuto del trade-off (dello scambio) tra efficienza ed equità. Uno scambio alla base anche della cosiddetta politica dei due tempi. Prima la produzione, poi la redistribuzione. Già nel 1945 scriveva: “… Ora l’equivoco è tutto qui: non esiste un problema di distribuzione che non sia al tempo stesso problema di ‘equa distribuzione’. La corrispondenza del riparto a ciò che la coscienza sociale considera come ‘equo’ non può rinviarsi ad un secondo momento, mediante l’attuazione di processi redistributivi, ma deve essere garantita all’atto stesso in cui si organizza la produzione e nelle forme stesse in cui questa si realizza. Mantenere su due piani distinti il problema tecnico della produzione e quello sociale dell’equa distribuzione significa praticamente lasciare insoluto quest’ultimo come dimostra il fatto che la libertà dal bisogno, l’attenuarsi delle disparità economiche individuali, l’uguaglianza nelle possibilità sono ancora oggi mete da raggiungere, pur essendo aspirazioni antichissime …”. Così ogni politica economica doveva essere giudicata anche per le conseguenze che poteva avere sull’assetto distributivo.
Un altro contributo importante è stato - a mio avviso - l’ argomentata e radicale dimostrazione non solo della intrinseca instabilità dei mercati finanziari, ma della loro stessa incapacità logica e fattuale di svolgere quella funzione allocativa che il pensiero prevalente assegna loro. In sostanza tanto più questi mercati rappresentano i fondamentali di quelli reali tanto più ne rispecchieranno l’assetto oligopolistico; mentre quanto più se ne allontaneranno, tanto più saranno soggetti ad oscillazioni cicliche di euforia o di panico. Con grande rammarico di Caffè, il mondo accademico accolse quel saggio (“Di un’economia di mercato compatibile con la socializzazione delle sovrastrutture finanziarie”, 1972) con un imbarazzante silenzio
Un altro suo importante insegnamento è stato quello che, seguendo gli studi di Frish e Tinbergen, sottolinea la necessità di impostare in modo logicamente coerente i problemi di politica economica a cominciare dal rapporto tra gli strumenti e gli obiettivi. Emergeva la necessità che ad una pluralità di obiettivi di politica economica si commisurasse una pluralità di strumenti. Considerati questi in modo “disinibito”, come richiedeva l’economista N. Kaldor, e quindi senza trascurare, seppure temporaneamente e concordatamente a livello internazionale, i limiti al commercio, dazi, quote di importazioni ecc. In via temporanea, per dar modo alle economie nazionali di procedere ai necessari adattamenti delle strutture produttive senza eccessivi costi sociali.
Dicevo prima dell’impegno documentato sulla realtà, sul “sistema in cui viviamo”, come Caffè preferiva parlare del capitalismo, evitando inutile tassonomie. Un sistema di cui non voleva essere “né il becchino, né l’apologeta”. Per questo rifiutava la concezione della cultura “come venatio”; la caccia cioè da parte dei poteri forti all’intellettuale e all’economista e la loro frequente resa. A coclusione di un raffinato e complesso dibattito sull’ “economia del benessere” condivise l’opinione dell’economista I.M.D. Little secondo il quale “non è possibile esprimere un giudizio sull’accettabilità di un incremento della ricchezza, benessere, efficienza o reddito reale, la quale non tenga conto della distribuzione del reddito”. Sulla quale ovviamente non si può prescindere era inevitabile il giudizio su ciò che la “coscienza sociale” riteneva equo. E con G.. Myrdal era convinto che non fosse possibile evadere dai nostri giudizi di valore e che quindi era questione di onestà intellettuale dichiararli espressamente. Si spiega anche così la sua attenzione la documentazione in un’economia dell’informazione che non era cosa facile e scontata; parlava a tal proposito di “etica della statistica”. Soprattutto era preoccupato per l’informazione che perveniva al cittadino, all’opinione pubblica che doveva poi concorrere democraticamente alle scelte politiche ed economiche. Come è noto Caffè scrisse un saggio famoso sulla “Strategia dell’allarmismo economico”, cioè sulla rappresentazione manipolata della realtà, per indurre l’opinione pubblica a sostenere determinate scelte di politica economica. Era una preoccupazione connaturata alla sua sensibilità democratica e alla ricerca del consenso criticamente informato del cittadino. Invocava anche qui l’intervento pubblico per garantire una corretta informazione.
Questi ed altri contributi che si potrebbero aggiungere, sono stati piuttosto o completamente ignorati sia a livello scientifico e soprattutto sul piano delle politiche economiche concrete anche da parte del fronte progressista. Con sconsolato rammarico da parte di Caffè.
Per rilanciare l'economia mondiale quale insegnamento si può trarre dalla storia economica in generale e in particolare dai contributi di quest’autore?
Ho appena ricordato il convinto rifiuto di Caffè del trade-off tra efficienza ed equità. Ebbene quale migliore conferma ci viene dalla recente gravissima crisi finanziaria ed economica? E’ noto (anche se non si sottolinea abbastanza) che il primo “fondamentale” di questa è stata la compressione più che decennale dei redditi delle persone e delle famiglie e la crescente diseguaglianza dei redditi e delle ricchezze. Per garantire comunque una domanda effettiva aggregata si è favorito il generale indebitamento oltre ogni capacità di solvibilità futura. Su questo indebitamento si è poi costruita la piramide ulteriore di prodotti finanziari di varia sofisticazione (e “tossicità”) diffusi in tutto il mondo.
Ai primi sintomi di insolvenza dei debiti originari la piramide è crollata su se stessa innescando la causando la crisi produttiva e la classica deflazione da debiti (I. Fisher e H. Minsky). C’è un termine “politicamente corretto” per definire il comportamento di quegli operatori che hanno fatto indebitare in modo insostenibile migliaia, milioni di famiglie, oltre le loro capacità, dando loro l’illusione di acquistare, ad esempio una casa, tanto il rischio (di insolvenza) l’avrebbero rivenduto ad altri? Acquisto di immobili a prezzi gonfiati dalla permessa speculazione! I costi in termini di disoccupazione dilagante nel mondo e nelle perdite del risparmio a cominciare da quello previdenziale sempre più incanalato nei fondi pensione secondo quelle teorie - da Caffè contestate - ma soprattutto per la spinta delle lobby bancarie e finanziarie, sono sotto gli occhi di tutti. Ma c’è di più, questa domanda drogata dal debito ha permesso, distorcendo ulteriormente i prezzi, la continuazione di una produzione di beni e servizi spesso inutili, obsoleti e fuori dagli standard di contenuto inquinamento e di risparmio energetico. Così la bolla finanziaria ci lascia un’economia in grave ritardo e da riconvertire. La presidenza Obama sembra aver colto questi diversi problemi quando mette in campo non solo provvedimenti sul piano finanziario, ma interviene sul reddito, sul welfare, sugli investimenti pubblici, sulla riconversione dell’economia. Ma molta della informazione economica chiaramente orientata tende a sottacere questa correlazione tra impoverimento e diseguaglianze di reddito e l’attuale crisi; rinviando così un suo più rapido e più equo superamento .
Il liberalsocialismo riformatore dei pensatori prima richiamati e dello stesso Caffè reclamava la fondazione delle istituzioni per la piena occupazione, per la libertà e la giustizia, per la stabilità finanziaria. Istituzioni a livello nazionale e mondiale. Già a suo tempo Joan Robinson riconobbe come il capitalismo avesse sino ad allora fallito per quanto riguardava le istituzioni per la piena occupazione (ed oggi la situazione non è cambiata). Sulle istituzioni internazionali ed in particolare sulle deviazioni del Fondo Monetario Internazionale, si può dire che Caffè fu il primo, già nella metà degli anni settanta, a denunciare. I problemi internazionali furono infatti, sin dal suo impegno in Banca d’Italia, al centro costante della sua attenzione. Riprese gli studi del Myrdal sulla povertà dei paesi sottosviluppati, sottolineò l’erraticità dei movimenti speculativi dei capitali, e i gravi squilibri economici e finanziari, fatti gravare prevalentemente sui più deboli, rendendo del tutto ingiustificato ogni richiamo al cosiddetto libero mercato e alla allocazione ottimale dei capitali liberalizzati internazionalmente. Così, dopo l’abbandono della convertibilità del dollaro e la fine di Bretton Woods - seguendo il Kindleberger - rilevava come gli USA non fossero più in grado di assumersi la responsabilità del governo economico e finanziario mondiale. Per evitare quindi l’instabilità occorreva che qualche altro lo potesse fare, e allora c’era solo la Comunità europea come grande area geoeconomica, oppure che si arrivasse ad una forma di cooperazione. Oggi con il progressivo indebolimento degli USA, l’insorgenza di altre forti economie, sembra inevitabile che si debba andare verso una forma più allargata di corresponsabilità nella gestione dell’economia e della finanza internazionale. La storia recente ci segnala tre clamorosi fallimenti del neoliberismo. Quello della transizione all’economia di mercato da parte dei paesi dell’Est europeo, seppure con diverse caratteristiche specifiche; quello della grave crisi dei paesi dell’America Latina; quella mondiale recente. Della prima ed in particolare di quella russa un pensatore come Popper denunciò subito che il precipitoso passaggio al “libero mercato”, nella carenza delle necessarie istituzioni statali e della società civile, avrebbe precipitando il paese nella confusione, consegnandolo in mano ad avventurieri d’ogni genere e certo non alla democrazia. Del caso dell’Argentina e delle intollerabili ingiustizie patite dal suo popolo anche a causa del “consenso di Washington” è inutile ricordare. Come è inutile dilungarci ulteriormente sull’attuale crisi mondiale Una volta nei confronti di chi tardava a prendere atto del fallimento del “socialismo reale” si ricordavano le “dure repliche della storia”. Ma queste appena ricordate (e si potrebbe continuare) non sono abbastanza per chiudere un’epoca, quella del fondamentalismo neoliberale, che già troppe sofferenze ha causato?
Cosa fare dunque? Ci sono, certo, aspetti immediati di stabilità e risanamento finanziari sui quali non è qui il caso di entrare, ma soprattutto ci sono quegli aspetti reddituali e di giustizia sociale che sono a monte della crisi. Ricordiamo ancora il nostro economista: “Così oggi ci si trastulla nominalisticamente nella ricerca di un ‘nuovo modello di sviluppo’. E si continua ad ignorare che esso, nelle sue ispirazioni ideali, è racchiuso nella Costituzione, nelle condizioni tecniche, è illustrato dall’insieme degli studi della Commissione economica”.
Gustavo Zagrebelsky ha di recente affermato che la Costituzione è quella legge che viene scritta in condizioni di “sobrietà”, cioè con le sue rigidità nel modificarla serve a tutelarci dai momenti di “ubriachezza”. Da questa condizione occorre uscire al più presto per ritornare a quei valori che la nostra Costituzione afferma, a cominciare dalla centralità del lavoro. Dal lavoro di cittadinanza, nel suo diritto e nel suo dovere solidale. Lavoro e giustizia sociale, credito e finanza come promessa di una produzione e reddito futuri e non come mezzo per ulteriore finanza. Il modello di società che emerge dalla nostra Costituzione non è quello è quello della “share value society”, ma semmai quello, per continuare nell’anglesismo, della “labour value society”. Bobbio ci ricorda che secondo la Costituzione l’uomo vale per quello che fa e non per quello che ha. Il riformismo di Caffè prevedeva l’adeguamento del mercato ai diritti del cittadino e del lavoratore, non il contrario come invece si intende da troppi riformisti nostrani. Non è solo questione di civiltà è anche questione di maggiore efficienza secondo l’insegnamento di Caffè. Una società impostata sulla centralità dell’azienda la cui gestione sia finalizzata dalla frenetica ricerca del valore di borsa ci ha portato a questo stato di cose. Luigi Pasinetti e Sylos Labini ci ricordano che i benefici della maggiore produttività devono comportare la diminuzione dei prezzi là dove si realizzano, affinché quei benefici si diffondano in tutto il Paese, e non essere assorbiti tutti all’interno di quei settori. E’ un insegnamento valido anche per il sindacato che non si può ridurre ad una visione “marginalistica” e “paretiana”, anche per quanto attiene alle politiche retributive.
In tempo di crisi economica diventa ancor più importante lo sviluppo locale. Quali leve muovere per innescare lo sviluppo autonomo di aree produttive territoriali fortemente specializzate, come lo sono quella riminese riguardo turismo e manifatturiero?
Come è noto il tema e i problemi dello sviluppo sono tra i più complessi e molti economisti che si sono cimentati con esso hanno parlato del “silenzio dell’economia” (P. Krugman) e del “mistero dello sviluppo” (H. Helpman). Ogni tanto si pensa di individuare un modello valido nel paese che in un determinato momento sperimenta un tasso elevato di crescita, per poi rivedere quel modello quando quel paese entra in recessione o in difficoltà. In realtà come oggi generalmente si conviene non ci sono modelli validi per tutti e per sempre (R. Gilpin). Soprattutto oggi, in un contesto di profonde interrelazioni mondiali e di rapidi cambiamenti nella divisione del lavoro. Dall’importanza iniziale affidata alla dotazione dei fattori naturali, si è passati a quella del capitale, e poi sempre di più agli aspetti dell’educazione, della conoscenza, culturali, sociali, istituzionali.
Economisti come Becattini e Sylos Labini hanno bene messo in evidenza le sinergie da attivare e le economie esterne da diffondere in termini di facilitazioni amministrative, creditizie, di innovazione, di conoscenze tecniche e professionali. Il nostro Pasinetti ci ha dimostrato l’importanza della diffusione della conoscenza e della diffusione della produttività. Non conosco e non ho le competenze per esprimere un giudizio specifico su provvedimenti concreti e tanto meno sull’economia riminese. Ma in coerenza con quanto ricordato, penso che Caffè richiamerebbe alla maggiore coesione sociale e alla collaborazione di tutte le forze economiche ed istituzioni locali. Inviterebbe a riprendere il tentativo di una programmazione che “partisse dal basso” e che, nel prevedere la più ampia partecipazione democratica, facesse sentire ai cittadini che è qualcosa “che vale”, e così incrementando “la virtù collettiva” (secondo quegli indirizzi iniziali della Comitato Interministeriale per la Ricostruzione, allora frustrati). Perché tratta ed affronta i loro problemi immediati con senso di giustizia ed equità, chiedendo ad ognuno il contributo che è in grado di dare. Caffè commemorando Luigi Einaudi scrisse : “Sempre ed in ogni caso, come con straordinaria lucidità ebbe ad affermare Gobetti, ‘il centro fecondo del pensiero einaudiano consiste in un intimo scetticismo verso tutte le formule (anche le proprie) e in una fiducia assoluta nella inesauribile attività degli uomini’”.
I Comuni, le Provincie, storicamente sono state il riferimento dell'Italia, il tessuto sul quale si è creato quel municipalismo naturale che ha costruito l'Italia. Quali sono i punti di forza ed i limiti delle azioni che dal livello locale tentino di fronteggiare la crisi -oggi di tipo internazionale e finanziario- e vincere così la sfida?
Caffè scrisse uno dei suoi ultimi e più intensi articoli Per una riconquistata socialità su “Comune democratico, rivista delle autonomie locali e delle regioni” (n. 3, 1986). L’articolo era in particolare sui servizi locali e sulle municipalizzate. Oggi investiti tra l’altro dalle forti pressioni privatistiche. Nelle economie locali Caffè vedeva il terreno migliore per una possibile “riconquistata socialità”, per la rimessa in onore della “virtù collettiva” e quindi per un avanzamento democratico. E’ interessante un concetto analogo espresso dal filosofo Bertrand Russel nel 1948: “ Uno dei vantaggi che si potranno ottenere dal decentramento è che esso fornisce nuove occasioni di speranza e di attività individuali, che incarnano in sé la speranza”. Mentre nei confronti dei problemi mondiali e di quelli nazionali può subentrare un senso di impotenza “ … In rapporto ai problemi minori, quelli della vostra città, o del vostro sindacato, o della sezione locale del vostro partito politico, per esempio, potrete sperare di avere un’influenza efficace”. Non c’erano - secondo Caffè - formule o rapporti deterministici tra settore pubblico e quello privato nei confronti del reddito nazionale. Non c’era nessun riscontro empirico rispetto al fatto che il pubblico fosse necessariamente inefficiente e lo fosse invece il privato. Lo possiamo ben dire anche noi, oggi, dopo che il processo di privatizzazione è andato ben più avanti rispetto ai tempi in cui Caffè scriveva. In Italia poi le privatizzazioni non hanno portato né maggiori efficienze, né minore corruzione. Con un’inversione nei rapporti di forza a favore del privato che corrompe il politico. A dimostrazione che non è tanto, o almeno solo, la proprietà a risolvere alcuni problemi. In realtà come insegna Caffè i fallimenti del mercato non si curano in modo analogo a quelli, pur esistenti, dello Stato. Sui primi soccorre l’intervento pubblico che può essere di vario genere: diretto oppure affidato ad agenzie regolamentatrici. Ai fallimenti dello Sato non si ritorna al mercato - quando ritenuto inadeguato in determinati campi – come sono in generale i servizi pubblici in gestione di monopolio naturale - ma con l’estensione della vigilanza, della partecipazione e del controllo democratico. Controllo tanto più efficace quanto più si tratti di questioni locali e territoriali. Ed anche in caso di gestione privata, nel ricordare che il profitto è la retribuzione dl rischio imprenditoriale qui praticamente inesistente – sono non meno necessarie forme di vigilanza e controllo democratico che dovrebbero essere inserite nelle stesse concessioni.
Naturalmente l’economia nazionale non è fatta solamente di piccole e medie imprese e, consapevole di quell’assetto capitalistico moderno e sempre più integrato a livello comunitario ed internazionale che abbiamo prima ricordato, sapeva che erano altrettanto necessarie imprese di grandi dimensione che potevano esser controllate solamente a livello nazionale e neppure così come dimostrano vicende legate alle multinazionali.
Ma abbiamo visto, parlando dello sviluppo, l’importanza dei fattori culturali anche locali per la formazione dei vantaggi competitivi. E’ significativa questa bella pagina di Caffè, tratta dall’articolo sopra citato : “Diverse volte, nella vita civile del nostro Paese, è risuonato il richiamo di rivolgersi alla storia. E anche oggi, malgrado i ripetuti inviti a pensare in termini postindustriali, postmoderni o l’opposta ma ugualmente ambigua designazione di alcuni aspetti della nostra vita istituzionale come premoderni, mi sembra che risulti utile non disperdere il significato delle radici storiche di forme differenziate di culture, di metodi organizzativi, di sforzi di miglioramento sociale, e ciò proprio in un momento in cui la crescente interdipendenza tra i vari paesi e la rapidità delle forme di comunicazione sul piano mondiale tendono verso un processo generale che può essere, al tempo stesso, di interpenetrazione, ma anche di insidioso e gratuito assoggettamento imitativo”. E’ una sollecitazione, ancora una volta, a non fare troppo affidamento sulle soluzioni esterne, ma a mobilitare le energie e concentrarsi sui problemi più urgenti della gente comune, a valorizzare tutte le risorse a cominciare da quelle locali e del territorio, ivi comprese la banche locali. A valorizzare il patrimonio umano, innanzitutto dei giovani, con una politica attiva del lavoro, impedendo la piaga delle migrazione interna ed estera, ad impiantare centri di innovazione e ricerca, ad innovare prima di abbandonare artigianato e vecchie produzioni, a riconvertire prima di abbandonare le fabbriche, ad evitare la “desertificazione dei luoghi” (Becattini). Con l’avviso di mantenere forme di proprietà pluralistiche, incoraggiando quelle cooperative e il volontariato sociale, lasciando poi alla dinamica culturale la loro crescita relativa (Zamagni). Ma riprendendo intanto a governare - e non è poco - le betoniere che continuano ad impastare … cemento e politica.
Su Federico Caffè vedi anche, sul nostro sito:
un suo articolo su "Diritto ed economia: un difficile ma pur necessario incontro";
e l'articolo da lui scritto alla morte di Piero Sraffa.
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