lunedì 21 novembre 2011

Le Generazioni, oggi

di Gilberto-Antonio Marselli
ordinario all'Università Federico II alla cattedra di sociologia,
svolge ancora attività per conto della società di sociologia.

Articolo pubblicato sulla rivista “Essere” numero 61 dell'ottobre 2011 del Centro Studi “Erich Fromm” di Napoli

In ogni periodo storico, ogni società, indipendentemente dal proprio grado di civiltà, si è dovuto porre il problema dell’ineliminabile staffetta tra individui di generazioni diverse per età, per esperienze, per prospettive ma anche per condizionamenti, pregiudizi e, soprattutto, per cause condizionanti esterne.
Se nella preistoria e, più recentemente, anche nelle società ancora prevalentemente tribali il passaggio del testimone avveniva secondo un rituale man mano stratificatosi nel tempo e sempre scrupolosamente verificatosi, in epoche più recenti lo scenario si è venuto trasformando radicalmente. Non raramente, anche dando luogo a veri e propri fenomeni sociali niente affatto trascurabili e verso i quali non sempre le doverose soluzioni politiche hanno dimostrato quella attenzione conoscitiva e quella capacità pratica di intervento che pur sarebbero state necessarie.
Per non riandare troppo indietro nel tempo, sarà sufficiente prendere le mosse da quanto ci ha consegnato la “seconda guerra mondiale” terminata nel 1945. L’aver coinvolto nella “guerra militare” e, ancor più, nella “guerriglia interna” – sia passiva, quando si era trattato di subire le conseguenze della prima, e sia attiva quando, direttamente o indirettamente, si è stati coinvolti dalla “resistenza” al regime ed all’oppressore – appartenenti a generazioni anagraficamente diverse, ha fatto sì che, per i più giovani, sia stato più facile crearsi il proprio spazio vitale. Spesso, pagando il caro prezzo di rinunziare alla propria gioventù per passare, anche inavvertitamente, dall’adolescenza all’età adulta. Un grande sacrificio, ma anche la legittima acquisizione di un efficace lasciapassare per potersi inserire, sia pure gradualmente, nel corpo vivo e pulsante di una società tutta intenta a sanare le ferite inferte dalla guerra ed a preparare i presupposti per la costruzione di un suo proprio futuro.

Oltre ad opportune misure nel più ampio e generale ambito del “Welfare” e delle politiche del lavoro, sarà necessario operare soprattutto perché, a livello dei singoli e dei gruppi, si possa determinare un sostanziale clima di reciproca comprensione, che restituisca a ciascuno la propria dignità oltre che un proprio ruolo nella società.
Quella dell’anziano di non sentirsi più inutile, a carico della collettività ed ancor più della solidarietà familiare, temuto dai più giovani come sostanziale competitore nel mercato del lavoro e, quindi, come troppo patologicamente legato al godimento delle condizioni di vita conseguite nel corso del tempo.
All’altro lato, la dignità per i più giovani di non sentirsi ancora costretti a gravare sui bilanci familiari, a non poter avere la piena responsabilità di decidere come programmare il proprio futuro, anche dando luogo alla formazione di un nuovo nucleo familiare. Se si vuole, soprattutto la dignità di non essere mai più considerato come un cronico e disperato “minus habens” al quale è perfino impedito di sbagliare nei suoi tentativi di testare le proprie capacità.


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