lunedì 5 settembre 2011

Amartya Sen:
rifondare l'economia partendo dall'etica

di Attilio Pasetto
Economista

Tra le tante conseguenze negative, la crisi economica un effetto positivo sembra averlo avuto: quello di far crescere nella società civile l’esigenza di un cambiamento di rotta dell’economia. Un cambiamento che parta in profondità, ossia dalle regole, dai comportamenti e che investa i fini stessi dell’economia. Si avverte in particolare la domanda di comportamenti più etici da parte degli attori economici e politici con riferimento soprattutto alla finanza, alla vita pubblica, all’ecologia e a tutto ciò che riguarda uno sviluppo equo e sostenibile. Ecco quindi che, dopo essere stata a lungo tenuta fuori dagli “schemi” dell’economia, l’etica ritorna in gioco. Ma come ci ritorna? Il modo più comune è quello in cui l’etica si aggiunge all’economia e serve soltanto a tacitare le coscienze. È questo spesso il caso di tante grandi corporation, che creano una sezione dedicata a iniziative filantropiche e umanitarie accanto ai normali modelli di business. Non può essere questa la risposta alla domanda che sorge dalla società civile. L’etica infatti deve nascere dall’interno delle categorie economiche, non essere separata dall’economia, ma farne parte integrante. Per trovare la “chiave giusta” abbiamo allora bisogno di attingere al patrimonio scientifico e morale, che ci viene dai grandi pensatori, del passato e del presente. Un grande economista e filosofo contemporaneo che ci aiuta nel coniugare insieme etica ed economia è Amartya Sen.

Chi è Amartya Kumar Sen?
di Carlo Pantaleo
Presidente Associazione Centro Studi Nuove Generazioni

Amartya Kumar Sen (1933) Nato a Santiniketan in India è uno dei maggiori economisti e filosofi del mondo. È stato presidente dell’Econometric Society, dell’International Economic Association e dell’Indian Economic Association. Ha insegnato a Calcutta, Cambridge, Delhi, alla London School of Economics, Oxford. Premio Nobel nel 1998 per l’Economia, nello stesso anno è divenuto rettore del Trinity College di Cambridge. È Lamont University Professor di Economia e Filosofia morale ad Harvard. Si deve a Sen la rielaborazione in ambito economico di concetti chiave, come quelli di scelta, preferenza, razionalità, benessere, libertà, giustizia, che egli rivisita alla luce di una critica dell’utilitarismo e nello studio della povertà, in particolare nei Paesi in via di Sviluppo. Sen pone al centro della propria analisi la constatazione che non è sufficiente prestare attenzione ai soli ammontari di beni e servizi a disposizione della libertà di scelta di un individuo, ma accertarsi se questi abbia la capacità fondamentale ed effettiva (basic capabilities) di servirsene in modo da soddisfare i propri bisogni. Mentre i beni sono strumenti non univoci per la soddisfazione dei bisogni e non dicono ciò che il soggetto è in grado di fare con essi, la capacità di esercitare una funzione riflette ciò che una persona è e può fare con quegli stessi beni. La prospettiva che ne consegue apre nuovi orizzonti al discorso economico recuperando l’umanesimo civile per cui in una società capace di futuro, devono trovare espressione conveniente, adeguata e simultanea oltre ai principi del profitto e dello scambio e quello della distribuzione equa, anche il terzo della reciprocità. Uscendo dal riduzionismo si pongono così le premesse per un proficuo incontro tra economia, filosofia, morale, sociologia e scienza politica. Il suo contributo è ritenuto essenziale anche in altri settori con riflessi sociali, come la teoria dello sviluppo, i problemi della misurazione della dispersione nella distribuzione del reddito, la teoria delle scelte collettive e l’individuazione delle cause delle carestie. La sua produzione è vastissima, ma negli ultimi anni l’attenzione si è concentrata sugli effetti della globalizzazione, sul rapporto tra economia ed etica, sul legame tra ricchezza e benessere sociale. Oltre che il suo libro più famoso sulle carestie, “Poverty and Famines” (1981), fra i testi tradotti ricordiamo “Utilitarismo e oltre” (con Bernard Williams, 1984), “Scelta, benessere, equità” (1986), “Etica ed economia” (1988), “Risorse, valori e sviluppo” (1992), “Il tenore di vita. Tra benessere e libertà” (1993), “La disuguaglianza. Un esame critico” (1994), “La libertà individuale come impegno sociale” (1998), “La ricchezza della ragione” (2000), “Lo sviluppo è libertà” (2000), “Globalizzazione è libertà” (2002), “La democrazia degli altri” (2004), “Razionalità e libertà” (2005), "Un'idea di giustizia" (2010).



L'economia a lezione di etica
di Tommaso Manzillo
Dottore commercialista

Vi invio questo contributo pubblicato su "il galatino" nr. 20 dell’11 dicembre 2009.

La crisi economica che stiamo, per certi versi, ancora attraversando (basti pensare agli ultimi effetti sul mercato del lavoro) è uno degli argomenti esaminati dal Sommo Pontefice nella Lettera Enciclica "Caritas in Veritate" (Roma, 29 giugno 2009), con un esplicito riferimento al messaggio della "Populorum Progressio" (1967) di Paolo VI. Dalla sua lettura è spontaneo il richiamo alle teorie di Adam Smith (kirkaldy 1723 ± 1790), non per accostare l'autore de "La Ricchezza delle Nazioni" (1776) alla figura del Santo Padre, ma per poter riassumere due autorevoli pensieri su uno dei temi più discussi dell'attuale congiuntura, ossia, se possono, insieme, economia ed etica, essere il volano, in questo Terzo Millennio caratterizzato da una visione di breve o brevissimo termine, per uno sviluppo e una crescita duratura dei popoli.

Nell'illustrare la situazione attuale, l'Enciclica sottolinea come l'esclusivo obiettivo del profitto perseguito senza tener conto del bene comune come fine ultimo, abbia portato il sistema verso la distruzione della ricchezza e la crescita della povertà. Le conseguenze di questa fase congiunturale sono gli effetti deleteri sull'economia reale di un'attività finanziaria centrata sulla speculazione, sui flussi migratori provocati e non gestiti appropriatamente, sullo sfruttamento sregolato delle risorse naturali. Indice puntato contro una certa classe di manager che, negli ultimi anni, rispondendo agli interessi economici degli azionisti, hanno approfittato di lauti compensi perdendo di vista i propri valori morali di riferimento. Il consumo, diceva Smith, rappresenta il solo obiettivo della produzione e l'interesse del produttore deve essere orientato verso quello del consumatore, ma se quest'ultimo risulta sempre sacrificato a vantaggio del primo, allora si è presenza di un sistema mercantilistico ed individualistico. L'egoismo è il responsabile principale di questa economia che si presenta come una scienza tetra e avversa agli ideali del romanticismo sociale. Viene fuori, in questo modo, lo scenario di un nuovo mondo che ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale e la riscoperta dei valori di fondo su cui costruire un futuro migliore.

Negli ultimi anni si è visto che il mercato lasciato da solo non riesce a produrre quella coesione sociale indispensabile per il suo corretto funzionamento, senza forme di solidarietà e di fiducia reciproca, e senza un certa ideologia che lo indirizzi in tal senso. Piuttosto che il mercato, Benedetto XVI chiama in causa l'uomo e la sua coscienza morale, la sua responsabilità personale e sociale. La vita economica ha sì bisogno del contratto per regolare i rapporti di scambio, ma ha anche necessità di leggi giuste e forme di distribuzione della ricchezza guidate dalla politica. In questo senso il pensiero smithiano ritiene che l'emancipazione civile sia stata realizzata proprio attraverso il commercio e le manifatture, puntando sui meccanismi della divisione del lavoro si è realizzata una vera rivoluzione per la felicità pubblica. Il ruolo dello Stato è fondamentale per la realizzazione delle condizioni indispensabili per la difesa della libertà e della concorrenza perfetta, per il raggiungimento del bene comune. Nella Teoria dei Sentimenti Morali (1759) Smith mette già le basi dello sviluppo della Ricchezza delle Nazioni, affermando che l'economia non tratta soltanto di azioni logiche o non logiche, secondo la teoria del mezzo-fine, ma anche delle emozioni coi gradi propri e impropri delle differenti passioni, fino al punto che il diritto naturale che informa tutta l'opera morale dell'uomo informerebbe anche l'opera economica.




A.K. Sen, L’idea di giustizia
di Luigino Bruni
Professore Associato di Economia politica presso l’Università di Milano – Bicocca e Istituto Universitario Sophia di Loppiano (FI)

La recensione sarà pubblicata sulla rivista culturale "Nuova Umanità".

La purezza di cuore, se qualcuno riuscisse a conquistarla, dovrebbe consistere nel vedere chiaramente e, a partire da questa prospettiva, agire con grazia e disciplina (J. Rawls, A theory of justice, p. 514)

Per discutere questo libro di Sen, un libro senza alcun dubbio bello e appassionante, un buon punto di partenza è iniziare dalla fine: “La filosofia può esercitarsi con esiti di straordinario interesse su una varietà di questioni che non hanno nulla a che fare con le miserie, le iniquità e la mancanza di libertà che affliggono la vita umana. E’ bene che sia così, e c’è senz’altro di che essere felici per l’espansione e il consolidamento del nostro orizzonte conoscitivo in ogni campo che sollecita la curiosità dell’uomo. La filosofia, però, può anche contribuire a dare maggiore rigore e rilevanza alle riflessioni sui valori e sulle priorità, nonché a quelle sulle privazioni, le angherie e le umiliazioni cui in tutto il mondo gli esseri umani sono soggetti” (p. 417). Sen è soprattutto per il secondo esercizio della filosofia, e chiunque sia interessato ad alleviare “le privazioni, le angherie e le umiliazioni” della gente, soprattutto dei più deboli, deve leggere questo libro di Sen (se ha voglia di affrontare oltre 400 pagine) o almeno qualche suo libro più divulgativo, articolo o intervista.

Sen dunque, come tanti altri grandi economisti (Smith, Pareto, Keynes, Schumpeter, Hirschman, Becattini, Sugden, etc.), pur essendo molto più di un economista, è anche un economista, almeno nel significato che questa parola aveva alle origini della scienza economica, quando gli economisti erano essenzialmente studiosi dello sviluppo, della pubblica felicità, dei grandi temi del benessere e della crescita civile e umana. Per comprendere Sen occorre allora inquadrarlo all’interno di una tradizione economica antica, e non tanto compararlo con i suoi colleghi di oggi, sempre più esperti di matematica e di modelli e spesso distanti dalle analisi della vita reale delle persone. Questo libro sulla giustizia di Sen si deve collocare al culmine di un progetto di ricerca ormai quarantennale, iniziato con importanti contributi nel campo della teoria delle scelte sociali, una branca di studi a cavallo tra la scienza politica e l’economia, iniziata nel Settecento francese con Condorcet e Borda, e sviluppata molto nel Novecento, soprattutto grazie all’economista americano K. Arrow e al suo classico “Teorema di impossibilità”. Questa teoria si occupa dell’aggregazione di preferenze e valori individuali in aggregati collettivi o sociali, che poi sono di guida alle scelte pubbliche, e utilizza soprattutto strumenti di teoria del voto. I messaggi che oggi provengono da questa teoria sono soprattutto dei paradossi e dei teoremi di impossibilità (uno formulato 40 anni fa dallo stesso Sen), che mettono in luce la complessità del passaggio dalle preferenze individuali a scelte collettivi, i rischi di manipolazioni, e le soluzioni o scorciatoie più facili (la più nota è la soluzione della dittatura, dove le preferenze di una singola persone diventano tout court quelle dell’intera collettività).

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