domenica 18 aprile 2010

Intervista a Luigino Bruni - Responsabilità sociale d’impresa in tempo di crisi

a cura di Carlo Pantaleo
Associazione Centro Studi Nuove Generazioni

L'Associazione “FIGLI DEL MONDO” per la responsabilità sociale d'impresa di Rimini ha organizzato la Conversazione pubblica annuale con Luigino Bruni, Economista, e Sergio Labate filosofo e scrittore. Il titolo significativo e quanto mai attuale di quest’anno è “Responsabilità sociale d’impresa in tempo di crisi : una proposta per le imprese”.
La crisi dei mercati finanziari sta assumendo dimensioni preoccupanti. Questa crisi, al di là degli esiti immediati, segna comunque un'accelerazione nella ridefinizione degli assetti di potere e di influenza dell'economia mondiale. Del resto, lo stato di recessione economica sembra scaturire proprio dal ruolo marginale in cui è stato relegato il sistema delle regole, e con esso, i concetti di valore, coesione sociale, etica d’impresa ed etica individuale.
Il ruolo sociale che l’impresa conserva anche in tempi di crisi economica è stata la leva che ha introdotto il confronto sulla possibilità che la RSI, così come la capacità dell’impresa di adottare ed esprimere valori etici condivisi, costituiscano una strada percorribile verso la coesione sociale e la sostenibilità, superando l’approccio basato solo sul concetto di “profitto a tutti costi”. Considerare la socialità e la reciprocità come realtà costitutive della e nella vita economica, significa non relegarle ad un aspetto residuale del rapporto conflittuale esistente attualmente tra le cosiddette “economia commerciale” ed “economia sociale”. Dall’umanesimo in poi queste due “tradizioni” di cultura economica e bancaria sono nate entrambe come complementari, sinergiche ed etiche: il “nemico” è l’economia incivile e irresponsabile. Dunque, malgrado una sempre maggiore consapevolezza del ruolo sociale dell’impresa tra gli operatori economici è ancora diffusa la convinzione che in tempo di crisi economica questi spazi siano un “di più”, un costo difficilmente compatibile con le esigenze di “austerity” imposte dall’emergenza economica. La responsabilità sociale è invece un vero e proprio investimento efficace che connota l’impresa come “civile”, grazie alla vita relazionale e sociale, all’incrementazione della partecipazione e dell’integrazione, all’inclusione degli “esclusi” nel mercato e nel circuito civile, divenendo nel contempo fattore educativo e innovativo, luogo vitale e dinamico che valorizza il capitale umano, sociale e competitivo. Vivere la responsabilità sociale nell’attuale fase di crisi significa allora riconoscere che la sopravvivenza dell’impresa e la sua sostenibilità nel tempo dipenderà in modo significativo dalla capacità di adottare ed esprimere i valori etici condivisi e rispettosi dell’interesse generale.
Abbiamo intervistato il prof. Luigino Bruni su quale insegnamento si può ricavare per la Responsabilità Sociale delle Imprese. Bruni è Professore Associato di Etica ed Economia presso l’Università di Milano – Bicocca, è uno dei più importanti economisti italiani, e ricopre numerose cattedre in facoltà ed atenei in Italia e nel mondo. Vicedirettore di Econometica, centro interuniversitario di ricerca sull’etica di impresa, si occupa di economia sociale, di storia del pensiero economico ed è stato tra gli ideatori dell’economia di comunione. Autore di numerosissimi articoli e pubblicazioni, ha scritto alcuni saggi sul rapporto tra economia e felicità (Città Nuova, Roma, 2004; Routledge, London, 2006). Con Stefano Zamagni ha scritto il volume Economia civile (Il Mulino, Bologna, 2004) ed ha curato, con Pier Luigi Porta, alcune raccolte di saggi, tra cui Happiness and Economics (Oxford University Press, Oxford, 2005).

DOMANDE

Quale relazione positiva può sussistere tra il grado di Responsabilità Sociale dell'Impresa e la sua competitività economica, anche in tempo di crisi?

Ci sono tanti gradi di connessione e rapporto fra i due aspetti. Intanto perché un impresa responsabile è tale quando sa rispondere, quando accorcia la filiera, quando pone al centro la persona, quando privilegia la gratuità rispetto al contratto e si basa su un principio di sussidiarietà. In queste imprese si riducono i conflitti con i portatori di interesse (stakeholders), si aumentano i “passaggi” solo se necessario, si consente la partecipazione, si genera un capitale reputazionale che si trasforma anche in profitto economico sia riguardo gli investitori che i consumatori. Pur in tempo di crisi, in queste imprese, si è più fedeli, c’è più motivazione che si traduce anche in aumento di produttività, c’è meno uscita e quindi non si vanificano gli investimenti sul personale, si riduce la possibilità di turn over e quindi si hanno minor costi di ricerca e sostituzione del personale; c’è maggiore attenzione alla qualità, ai propri clienti, risolvendo il conflitto con gli interessi degli azionisti, e inoltre, c’è anche più responsabilità per l’ambiente, e quindi riduzione dei consumi energetici e maggior efficienza degli investimenti.
Queste imprese possono essere “abitate” dalle persone che se ne riappropriano come luogo della vita e di relazione. C’è più attaccamento al lavoro da parte dei lavoratori, perché si condivide un progetto sociale, non solo i soldi del “padrone”. Di certo c’è una certa competitività nell’impresa responsabile: è più coesa, più creativa e più innovativa, specialmente oggi in un mercato difficile che deve saper agganciare la ripresa. Da questi elementi fondamentali, quindi, ci può essere una ricaduta in termini di potenziali vantaggi dalla responsabilità.

Come spiegare la responsabilità sociale delle imprese intesa quale modus e processo di concepire e organizzare l'azienda?

La responsabilità va intesa in termini di equità delle procedure (cioè delle scelte dell’azienda), di partecipazione alla democrazia, di organizzazione di un impresa “più piatta” e meno gerarchica. Il profitto è solo un vincolo di efficienza o un segnale che il progetto sta funzionando. L’impresa responsabile inoltre consente la partecipazione e, in quanto luogo della vita può essere abitata dalla gente, è aperta a nuovi soggetti, diviene per i cittadini luogo di voice. Questo aspetto pone una questione di democrazia e di libertà. L’impresa è responsabile quando include nel mercato e nel circuito civile gli “esclusi”, divenendo fattore civilizzante e di innovazione, capace di rendere affidabili gli esclusi e gli inaffidabili. Parallelamente, la banca è civile quando, dando credito a chi non ce l’ha, lo fa capace di credito. La vera fiducia incorpora sempre la possibilità del tradimento, ma è questa fiducia che crea comunità, che fa diventare un bambino adulto, che educa davvero. Oggi occorre ricordare che la funzione dell’impresa non è massimizzare i profitti: quando ad esempio, il settore bancario fa (come è accaduto negli ultimi anni) alti profitti, è l’economia, è la società che si stanno ammalando. La crisi è nata da un’economia “normale”, non più basata sull’etica, Ma quale significato riveste quest’ultimo termine? Per l’economista il mercato stesso è una faccenda etica, in quanto “vita in comune”: conseguentemente l’impresa è etica quando è responsabile, ovvero risponde alle esigenze del mercato e dei soggetti che ne fanno parte, accorcia la filiera produttiva, pone al centro la persona con la propria individualità, privilegia la gratuità rispetto al contratto e si basa su un principio di sussidiarietà.
La responsabilità si fa con le persone prima che con gli strumenti. In questo senso il profitto influisce solo come vincolo di efficienza, come segnale di solidità e buon funzionamento dei legami tra i vari elementi costituenti l’azienda. Sussidiarietà nelle organizzazioni significa accorciare la filiera, aumentare i “passaggi” solo se necessario, e “non faccia il contratto ciò che può fare la gratuità” (oppure: il contratto e le regole sono civili quando sono sussidiari alla gratuità e alla vita relazionale dell’impresa). Il tema della governance democratica attraversa l’impresa per costruire, vivere, scegliere e agire tiene conto del coinvolgimento dei vari lavoratori, dei vari collaboratori, degli stakeholder: non è responsabile solo quello che io faccio con il sovrappiù, con il profitto, ma è come lo produco in un modo democratico, partecipativo ed equo. L’equità è fondamentale, e secondo me, il 90% della responsabilità si gioca dentro l’impresa, e non fuori.

La crisi internazionale si somma alle difficoltà specifiche del nostro paese. Quale contributo si può ricavare dal pensiero economico italiano?

Il pensiero economico italiano è un pensiero antico, e la storia o ce l’hai o non ce l’hai: è come il coraggio, non puoi comprarlo. Da questa storia ricaviamo che la responsabilità sociale dell'impresa implica un ripensamento della sua funzione che non deve essere improvvisata: essa è insita storicamente nel pensiero dei grandi economisti del passato. Dalla tradizione italiana sappiamo che lo scopo dell'impresa non è il profitto: questo è solo un vincolo di efficienza, un segnale che il progetto sta funzionando. La funzione dell’impresa non è massimizzare i profitti altrimenti si trasformano gli imprenditori in speculatori. Una cultura e un sistema economico entrano in crisi quando si concepiscono come contrapposte “economia commerciale” e “economia sociale”, perché ciò presuppone che la prima possa essere incivile e non responsabile. In realtà, questo rapporto è di complementarietà e sinergia. In merito si pensi alla figura del beato Tovini: l’etica riguarda entrambe! L’eticità non va associata solo all’impresa sociale o alla banca “etica”: se, ad esempio, le banche commerciali, che si rivolgono agli imprenditori e alle famiglie “normali”, non sono etici, la società non funziona. Non dobbiamo cadere nell’errore di immaginare degli specialisti o dei monopolisti dell’etica e della responsabilità, da una parte, e soggetti eticamente “neutrali” dall’altra.
Nessun atto umano è eticamente neutrale. In economia, che è vita, niente è neutrale o semplicemente tecnico: ogni scelta economica è “eticamente sensibile”: Chi oggi vuole più etica nell’economia e nella società deve senz’altro sostenere la finanza e l’economia etiche, ma deve anche aumentare il tasso di eticità della economia “normale” o commerciale: la crisi è nata da una finanza “normale” non etica. Il mercato non è una “morally free zone”, come dice il filosofo Gauthier: il mercato è vita in comune, e in quanto tale è faccenda etica.
Enfatizzare la finanza o l’economia etica come “categoria” o settore della finanza, può avere effetti perversi. La banca “normale” non è etica solo perché ha fondi etici nella sua offerta: la banca è etica quando gestisce con oculatezza e prudenza (che grande virtù!) il rischio, quando non usa a suo favore le asimmetrie informative, quando non fa “azzardo morale”, quando non offre alle famiglie titoli derivati, quando è trasparente: l’etica riguarda il 98% della vita di una banca, non il 2% dei fondi etici. L’economia, l’impresa, non è etica e responsabile solo (o principalmente) perché fa il codice etico o il bilancio sociale: l’impresa è etica quando costruisce ambienti di lavoro vivibili, quando paga le tasse, quando “risponde” alla gente nell’ordinaria vita economica: tutto il bilancio aziendale è sociale e etico!
L’economia è responsabile quando include nel mercato e nel circuito civile gli “esclusi”: Dai Monti di Pietà a Yunus l’impresa e la finanza sono fattori civilizzanti e di innovazione, quando sono capace di rendere affidabili gli “esclusi” e gli inaffidabili. La banca è civile quando dando credito a chi non ce l’ha lo fa capace di credito. La fiducia vera ha anche questa capacità riflessiva: ma occorre saper rischiare. Un sistema bancario a rischio zero non crea credito, ma lo distrugge (e alla fine aumenta il rischio). Una impresa è etica quando consente la partecipazione, quando può essere “abitata” dalla gente: non si possono lasciare l’economia e la finanza ai soli “addetti ai lavori”. Dobbiamo riappropriarci anche di questi luoghi della vita: è questione di democrazia e di libertà!
L’Italia ha questo grande vantaggio di 800 anni di mercato, di imprenditori e di mercanti, con un idea di economia molto più legata alla società, ai villaggi, ai comuni. C’è meno l’idea americana dell’economia delle grandi imprese che nasce nell’800; da noi nasce prima. Noi abbiamo un’idea di economia più civile, più dentro la città, più ancorata perché storicamente l’imprenditore e nato dalle parrocchie, dalla chiesa, dai movimenti sociali, dalle campagne. Quindi ci portiamo dietro un’economia più amica della città. Non è un caso che l’Italia ha visto nascere i distretti industriali, i progetti di economia sociale, la cooperazione che ha sviluppato i sindacati, cose che non sono ben presenti né in America, né in Inghilterra, né in Francia. Quindi abbiamo molto da offrire, un’impresa più comunità, più vicino alla gente, più civile.
Oggi il sistema economico e finanziario ha bisogno di innovatori, di soggetti animati da vocazioni che spostino avanti “i paletti della frontiera dell'umano”: non si costruisce una buona società senza finanza e senza banche, ma con buone banche e buona finanza. L'economia è troppo importante per lasciarla ai soli cercatori di profitti, ai soli speculatori. Oggi essere etici significa certamente “protestare” come cittadini, ma significa anche associarsi per dar vita ad innovazioni, a nuove istituzioni economiche finanziarie che “abitino” la finanza e i mercati e li contaminino. Partecipazione e impegno sono i nuovi nomi dell'etica e della responsabilità oggi.

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