domenica 18 aprile 2010

Intervista a Marcello De Cecco - Governare la crisi si può: la lezione dell’economia mista italiana

a cura di Carlo Pantaleo
Associazione Centro Studi Nuove Generazioni

Seminario conclusivo del ciclo “Governare la crisi, il contributo del pensiero economico italiano” tenuto da Marcello De Cecco, Scuola Normale Superiore di Pisa

Il Prof. Marcello De Cecco nel seminario conclusivo del ciclo “Governare la crisi, il contributo del pensiero economico italiano” ha trattato di quella genia italiana di economisti applicati che hanno caratterizzato la storia nostro del Paese dando attuazione alla cosiddetta economia mista.
Quelle che seguono sono le domande che abbiamo posto al prof. De Cecco nello specifico sul tema trattato, e le altre, comuni anche agli altri relatori, sull'attuale situazione.

DOMANDE

Di fronte a questa crisi finanziaria si tende a evocare quella del 1929. Ci troviamo di fronte a una delle tante crisi cicliche, oppure siamo di fronte a qualcosa di inedito che ridefinirà i rapporti di forza e di potere anche fra gli Stati, le monete e anche nella stessa economia capitalistica?

Al momento non si è capito se siamo di fronte ad un episodio ciclico oppure a qualcosa di radicalmente diverso, per il cui il domani non uguale a ieri. Non è mai uguale ma se è molto diverso, si verifica quello che si chiama il cambio di regime in economia. Questo è però molto interessante perché la percezione del pubblico per la prima volta da quando mi ricordo è quella del millenarismo, cioè di dire qui è essenzialmente finito il mondo. Perché è così? Mi ricordo delle crisi terribili in cui è crollato un pilastro dell’economia del dopoguerra, i prezzi sono saliti, si è rischiato di essere in mano agli sceicchi, eppure nessuno ha detto è finito il mondo. C’era la percezione che bisognava fare uno sforzo per il momento che era grave e bisognava uscirne, ma in termini reali quello che era successo non era di meno della situazione attuale. Si è diffuso in tutto il mondo la convinzione che è finita una fase e che adesso ne parte un’altra. Bisognerebbe capire da che dipende: io credo che dipenda dal fatto che era stata messa sull’altare la finanza. Tutti i paesi sviluppati avevano sentito dire che bisognava fidarsi dei servizi della finanza, perché la manifattura era rispettivamente povera, Se questo è ciò che era stato messo sull’altare è crollato: tutti i giovani bravi si specializzavano in essa, i bocconiani che lavorano nell’industria non ci sono stati più mentre prima c’erano, gli ingegneri non c’erano più. Ebbene questo che era il nuovo obiettivo di tutte le persone di un certo livello e ambizione è crollato. E' crollato con un effetto drastico sulle tasche delle persone e quindi c’è anche la paura di perdere tutto. Nel dopoguerra grazie a Menichella e a tutti quelli come lui, noi abbiamo pensato che se uno metteva i risparmi in una banca, non guardava nemmeno come si chiamava perché erano sicuri. L’Italia dal 1936 ha conosciuto questa tranquillità, ma l’Italia dal 1860 al 1936 era chiamato il Paese degli scandali bancari, perché ne succedeva uno ogni quattro o cinque anni, alcuni epocali. Quindi è stato fatto un cambiamento che ci ha cambiato veramente il modo di esistere: quando uno fa il mestiere che fa normalmente e la banca gli serve, non si deve cominciare a preoccupare di guadarne il bilancio per vedere se è solida. Questo prima si doveva fare. Poi ci sono stati settant’anni, anche di più, che sono un certo numero di generazioni in cui si poteva esserne tranquilli che non sarebbero stati dilapidati. Ad un cero punto, da un giorno all’altro, si rimette in dubbio questa certezza. I propri soldi che erano al sicuro non lo sono più! L’economia “della libertà” significa pure che si deve imparare a scegliere dove mettere i propri soldi. Quando a uno gli dicono ci devi pensare da te, e né a suo padre e nemmeno a suo nonno questo era accaduto, la situazione comincia ad essere estremamente critica perché non abbiamo né i meccanismi né gli strumenti per pensarci da noi. Questo credo sia il motivo dell’angoscia: uno è quello che c’è questo dio che è caduto e crollato, e dall’altra parte, la paura che questi risparmi di una vita non si sa dove devono essere messi. Si dovrebbe andare a chiedere se il direttore della Banca è una persona perbene e responsabile o no. Menichella chiuse 1000 banche quando stava al governo della Banca Centrale: erano tutte “bancarelle” ma non se ne era accorto nessuno perché le faceva assorbire da altre banche e tutto rimaneva come prima. Nessuno pensava, neanche per un minuto, che ci potesse essere la possibilità che i propri soldi che erano in una banca qualcuno li toccasse e non glieli ridessero indietro. Invece, adesso, è stato predicato da autorevoli economisti e uomini di Stato che ci dobbiamo pensare noi, è cura di ognuno ed è una novità lancinante che non si è mai vista. Queste vicende si conoscono per chi ha studiato le crisi bancarie, ma non è detto che tutti devono saperne così nei dettagli. Anch’io come cittadino sto molto meglio quando non me ne devo occupare, dove è scritto che tutti devono saper fare l’economista. L’economista è un mestiere, voi qua magari qualcuno lo farà, ma non è detto che gli altri che fanno il proprio mestiere devono fare pure l’investitore e l’economista. Anzi devono essere liberati da questa preoccupazione, e lo siamo stati in Italia e anche nel resto del mondo fino ad oggi. Ad un cero punto ci è stato detto che non è vero, e che dovevamo cominciare a pensarci da soli. Allo stesso tempo quelli che dovevano fare la figura delle persone “più intelligenti” e preparate di tutti si sono trovate invece in difficoltà e ci sono loro pure miserabilmente caduti. Purtroppo non sono così stupidi perché questi saranno salvati tutti. Questa è un’altra cosa che alla gente non piace, d'altronde se non sono salvati tutti ci sfasciamo tutti. Questo vuol dire ricatto.
Prendiamo il caso della banca d’investimento americana Lehman Brothers. E’ stata fondata nel 1850, è stata uno dei principali operatori del mercato dei titoli di stato statunitense, aveva uffici in ogni angolo del globo. Nel settembre 2008 la società ha richiesto la procedura di fallimento, annunciando la più grande bancarotta nella storia degli Stati Uniti. Il ricatto si è visto quando hanno fatto crollare questa banca: si è sfasciato letteralmente il mondo, e questa è la riprova che chi è in una grande istituzione finanziaria può fare quello che gli pare tanto alla fine gli va sempre bene. Questo è un modo di ricattare che la gente capisce che non va bene e che quindi bisognerà fare qualcosa a proposito. Mantenendo le cose come sono non si ottiene nessun risultato innovativo. Poi c’è la paura cinese che spaventa particolarmente gli italiani che sono deboli industrialmente. I cinesi che non fanno niente di diverso di quello che hanno fatto i giapponesi prima, e non fanno niente di diverso da quanto hanno fatto gli stessi italiani. Le crisi si superano con sacrifici e salendo nella scala della qualità. Proprio questo è un altro problema italiano. Gli italiani sentono confusamente che il loro modello di sviluppo è al momento obsoleto e più esposto al vento della concorrenza di questi paesi. Essendoci la moneta unica europea la soluzione non sono più le svalutazioni progressive: anzi sono venuti al pettine tutti i nodi che erano stati tenuti lontani per trent’anni con queste. Ciò nonostante non è che solo noi stiamo male, anzi abbiamo un sacco di risparmi e gli altri paesi non li hanno. Abbiamo un sistema bancario che non è un granché e non si è andato a mettere nei guai. Il problema è che i guai in Italia ci arrivano dall’altra parte, ovvero dall’economia reale. Sarà l’economia reale che porterà a fondo l’economia finanziaria, cioè il contrario di quello che sta succedendo all’estero. Gli altri paesi hanno l’economia reale che probabilmente è meno esposta alla crisi e se questa dura, in Italia sono le imprese che fanno fallire le banche. Sia perché c’è un rapporto tradizionale di credito e se quelle non pagano le stesse imprese vanno a male. Da noi può accadere il contrario di quello che è successo in America, in Inghilterra in particolare, e perfino in Germania, dove c’è stata una crisi finanziaria privata fortissima. Noi abbiamo il problema del debito pubblico che è oramai è uno stock, una pietra al collo; poi c'è il problema dell’inadeguatezza industriale di lungo periodo e il fatto che abbiamo sul collo il fiato di questi paesi imitatori. Infine non sembra che ci sia un grosso desiderio, almeno come politica nei confronti della scuola, dell’educazione e della ricerca, di uscirne come invece hanno fatto gli svedesi e i filandesi… Questi si sono rimessi in carreggiata dopo sacrifici enormi in termini di prodotto interno lordo, sacrificandosi per alcuni anni hanno saputo ridare un impulso all’economia della ricerca, della formazione, e a questi aspetti che sono la soluzione per un paese come l’Italia alle imitazioni. In altre direzioni non credo possiamo andare: tutto questo costa e bisogna dedicarci risorse, in alcune regioni si sarà più pronti, in altre servirà più tempo, ma dobbiamo cambiare la tendenza.

Quanto durerà questo sistema monetario mondiale? Non molto a lungo, secondo autorevoli esperti internazionali. Ancora molti anni, suggeriscono ascoltati consulenti della presidenza americana. E l’Italia? Chi cerca di guardare lontano non può nascondere un fondato pessimismo. Gli anni dell’incertezza sembrano voler continuare anche nel futuro prossimo, per equilibri mondiali sempre più precari.
Quali le ragioni sia del successo sia delle tendenze al declino della nostra recente storia economica, considerate anche in rapporto all’evoluzione istituzionale?

Le ragioni del successo sono quelle più antiche e sono appunto una preparazione lunga che dura dalla creazione dell’Unità d’Italia, poi passa specialmente per un periodo che va dal 1890 al 1914, e poi c’è un lungo periodo successivo tra la guerre in cui di nuovo si creano di nuovo dei presupposti per il funzionamento della cosiddetta economia mista. Dopo la guerra per una ventina d’anni, anche trenta, abbiamo avuto un’esperienza di sviluppo veramente consistente che si è basata appunto su questi due pilastri che sono l’economia pubblica e l’economia privata. Essenzialmente l’economia pubblica che provvedeva alle infrastrutture e ai servizi più importanti, e quella privata che faceva il suo mestiere di investimenti nel settore privato. Inoltre si deve considerare che la guerra c’è stata una tendenza più o meno indotta dall’atteggiamento del paese più importante che erano gli Stati Uniti a creare un’economia aperta in tutto il mondo, e quindi a favorire le esportazioni, mentre prima non era vero. Gli italiani si sono molto distinti in questa loro capacità di esportare, anche se non hanno raggiunto dei livelli tecnologici molto elevati, però ci stavano andando abbastanza vicino. Hanno costituito un corpo di esportazioni nei settori che ci sono anche adesso ma tutto questo è stato abbastanza colpito, più forse che in altri paesi, dalla fine del sistema dei cambi fissi e dalla guerra del petrolio, dalla prima e seconda crisi petrolifera. Da quel momento si può dire che cominci il declino relativo, perché i cambi non sono più fissi e gli italiani si trovano a svalutare sempre più la valuta della propria moneta per far fronte a problemi di competitività nei confronti di altri paesi. Quindi in questo clima meno favorevole si resiste solo con queste svalutazioni che diciamo “progressive” e che durano fino alla creazione dell’euro. In questo clima si mantengono le esportazioni, però si fa strada anche una forte inflazione e si rovinano i conti pubblici, specialmente negli anni ottanta. Tutto era cominciato già prima perché non c’è essenzialmente abbastanza reddito introito delle tasse da parte dello Stato per finanziare tutti i programmi di spesa. Molti dei questi però hanno permesso la realizzazione delle infrastrutture italiane, dei servizi pubblici, del trattamento previdenziale, delle scuole, degli ospedali. Tutte queste spese si sono cominciate a farle quando era finito il primo grande boom di sviluppo. Forse dovevamo farle prima, però è successo così, e quindi si è accumulato questo gigantesco debito pubblico, che in effetti, a partire dagli anni novanta, è stato messo sul mercato internazionale: prima se ne erano fatti carico gli italiani stessi. Ogni famiglia aveva parecchi buoni del tesoro che li teneva come specie di pensione accessoria in quanto erano molto ben remunerati. Poi ad un certo punto sono crollati i tassi di interesse in tutto il mondo e la gente si è trovata con questo debito pubblico che non rendeva più molto e con la necessità invece di avere dei rendimenti. Quindi, abbandonato il debito pubblico, esso è stato venduto ai finanzieri internazionali, e là sta anche adesso. Invece gli italiani si sono comprati variamente delle alternative collocazioni finanziarie dalle quali hanno ritratto qualche soddisfazione all’inizio ma poi un sacco di guai come è noto. Questo è un elemento, l’altro è che con le svalutazioni “competitive”, cioè riuscendo a far quadrare i conti alle imprese solo con queste progressive svalutazioni, si è venuto anche a creare la certezza e la coscienza da parte degli imprenditori di trovarsi in settori che non avevano più molto futuro. Il tasso di investimenti non si è tenuto più come prima nel settore privato e questo ha voluto dire che la capacità industriale non si è espansa (basta vedere gli occupati delle grandi imprese erano molto di più trent’anni fa di quanti sono adesso) perché le grandi imprese in Italia sono entrate in crisi proprio in quel periodo e non si sono mai più riprese. La soluzione è stata quella di ricorrere alla piccola e media impresa, però siamo l’unico paese che ha solo quella mentre le grandi imprese ce le hanno tutti. Le piccole e medie ce le abbiamo noi ma abbiamo solo piccole e medie, grandi imprese ormai ce ne sono solo 4 o 5 e non basta per un paese di sessanta milioni di persone. Ora è difficilissimo pensare di ricrearle nuovamente.
Quello che poi è andato in crisi è anche il sistema dell’economia mista: la parte pubblica un po’ come hanno dimostrato gli scandali era diventata una faccenda estremamente politicizzata e un po’ per necessità si è trovata a far fronte al debito pubblico e ai suoi relativi interessi. C’è stata tutta un’ondata di privatizzazioni che ha risollevato di nuovo l’Italia. In Italia ce ne sono state anche di più di quelle che servivano, e questo ha voluto dire lo smobilizzo di una quantità di industrie che non badavano fortemente ai profitti, perché industrie pubbliche. Queste però continuavano a investire anche quando non si guadagnava tanto e faceva lavorare l’economia anche se non era il sistema capitalistico privato. Questo è il problema principale: la smobilitazione di un sistema che è andato molto bene e che però è entrato in crisi, e il sistema alternativo della piccola e media impresa mostra la corda, cioè non riesce a tenere in piedi un paese che deve stare trai i primi 5 o 7 del sistema economico internazionale. Tutto questo è un sistema instabile perché è difficile pensare che possa rimanere il livello di reddito relativo al quale si trova attualmente con queste risorse.
Poi noi siamo dei trasformatori di materie prime, quando queste costano poco ci siamo sviluppati, ma quando hanno iniziato a costare molto e se risaliranno nuovamente diventeranno un problema pesante per l’Italia. Anche la bilancia dei pagamenti energetici è abbastanza precaria, in quanto il paese consuma energia quanto prima nemmeno si immaginava ed è quasi tutta importata. Non abbiamo risorse: quelle idroelettriche che ci hanno portato avanti per un sacco di tempo però già nei primi anni sessanta non erano assolutamente più sufficienti. Così si è dovuto cominciare a importare. Il petrolio all’inizio costava poco e poi ha cominciato a salire. Tra i fattori prima dello sviluppo e poi anche del declino c’è anche questo prezzo relativo dell’energia che non è lo stesso degli altri paesi dell’Europa, poiché la Francia e la Germania hanno un sacco di carbone, e l’Inghilterra ha un sacco di carbone e di petrolio, noi non abbiamo né uno né l’atro tranne il metano della valle padana. Questa è una problematica complicata ma poi c’è un aspetto importantissimo quale il declino demografico che è il peggiore d’Europa. Noi siamo diventati da un paese esportatore di manodopera ma anche un paese di vecchi. Quindi è diventata una necessità, come negli altri paesi, questa quantità enorme di lavoratori stranieri ai quali gli italiani non si sono ancora voluti abituare. Infatti gli altri ci si sono abituati e ci convivono trasformandoli in cittadini.
Gli italiani pensano sempre che come loro quando andavano in America questa gente se ne voglia andare. Gli italiani non sono mai andati via per colonizzare un altro Paese: se ne sono andati a lavorare per poi tornare in Italia, anche se poi molti son rimasti là per motivi di storia così come durante la guerra. Essi però volevano ritornare e ci sono alcuni tra i nostri immigrati che sono venuti qua che pure loro che se ne vogliono andare. Ma altri sono venuti perché vogliono stare qui e noi non vogliamo abituarci al fatto che questo è un fattore di lungo periodo senza il quale si cresce anche di meno. C’è poco da scherzare se vogliamo tenere quel tipo di industria che ci abbiamo noi: abbiamo bisogno di loro e di creare dei cittadini.
Possiamo concludere dicendo che abbiamo di fronte una serie di problematiche che si possono anche risolvere per il meglio, ma se uno non le affronta ci possono portare anche a fondo.

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