martedì 8 giugno 2010

Le virtù come fondamento essenziale della buona società: alcuni spunti

di Giacomo Samek Lodovici
Docente di Storia delle dottrine morali e Ricercatore in Filosofia morale all’Università Cattolica di Milano.

Riflessioni per seminario "Responsabilità sociale e territorio - Un'opzione sostenibile oltre la crisi?”.

Mi è stato chiesto di mostrare il ruolo, anzi la necessità, delle virtù sia nell'ambito privato sia in quello pubblico, come fondamento della società. Ciò può sembrare strano perché, non di rado, si pensa che per una buona società siano necessarie e sufficienti delle buone regole ed un sistema di controllo efficace; invece le cose stanno diversamente.

Infatti, per agire moralmente bene non basta essere solo provvisti di norme-regole, bisogna essere provvisti anche e soprattutto di virtù, perché i principi morali e le regole non funzionano come un pilota automatico. Rispetto a buona parte degli autori moderni, dobbiamo cioè notare che le virtù non soltanto facilitano il compimento dell’azione buona, ma altresì la rendono possibile. Infatti, le regole non possono costituire da sole una guida sufficiente per l’azione: per sapere come agire non ci basta conoscere una regola. Piuttosto, è necessario compiere una serie di attività: bisogna, talora, dirimere i conflitti che si producono proprio tra le stesse regole; per applicare le stesse regole abbiamo bisogno di percepire i particolari salienti di una situazione; per applicare le regole è necessaria la capacità di individuare quali atti ricadano sotto di esse (cioè bisogna saper descrivere le azioni); in una situazione pratica dobbiamo capire se una norma ci riguarda; dobbiamo comprendere quando una norma ci riguarda vada applicata; dobbiamo capire in che modo dobbiamo compiere un atto che una regola ci prescrive. Ora, tutte queste attività richiedono le virtù, specialmente la virtù della saggezza pratica o phronesis.

Ora, tali attività delle virtù sono necessarie sia nell’ambito dell’agire individuale, sia in quello dell’agire sociopolitici: né il singolo, né il politico possono far affidamento unicamente sulle regole.

Inoltre, va sottolineato che, anche qualora le regole fossero sufficienti per sapere come agire bene, resterebbe il problema del rispetto delle regole stesse. Per quanto riguarda l’ambito sociopolitico, il contrattualismo ha intrapreso il compito di reperire le norme della collaborazione interpersonale in vista della pace sociale. Ma è nota la tesi di Ernst-Wolfang Böckenförde, secondo cui «lo Stato liberale, secolarizzato, vive di presupposti di cui questo Stato non può dare le garanzie». In effetti, le istituzioni possono veramente garantire una pace ed una società giuste, che non siano il risultato del prevalere del più forte, solo se sono virtuose almeno alcune delle persone che compongono la società e quanto più sono numerose tali persone virtuose che la compongono. I soggetti (che siano solo dei cittadini oppure dei politici) non virtuosi, e tanto meno i «soggetti utilitari» (cfr. G. Abbà) o malvagi, non sono affidabili come partner della collaborazione: violeranno le norme se la violazione corrisponde ai loro interessi e, quando possono violarle senza essere puniti, cercheranno tra le maglie dei controlli quegli interstizi dove possono maggiormente conseguire i propri interessi.
Infatti, nessun sistema, pur pervasivo (e dunque molto costoso), di controllo può essere perfetto (panottico, come lo auspicava Bentham); anzi, alla lunga, può (come ha evidenziato Bruno Frey) produrre persino l’aumento delle trasgressioni: quando il comportamento individuale è rigidamente controllato e le punizioni sono elevate, le persone tendono spesso ad osservare la legge solo perché temono le conseguenze delle trasgressioni, e cercano perciò di esplorare tutte le opportunità di violarle impunemente anche per reazione e per desiderio di trasgressione. Così, questo eccesso di sanzioni incrementa le trasgressioni dei free riders, la proliferazione di norme è controproducente, aumenta la frequenza proprio di quei comportamenti dannosi che si volevano evitare con i vincoli e le sanzioni.
Così, il rispetto delle leggi richiede anche un atteggiamenti e comportamenti virtuosi, quelli di chi è disposto a rinunciare ai propri interessi anche quando li potrebbe conseguire impunemente e prende piuttosto a cuore il bene comune.
Ed anche un sistema poliziesco ha bisogno che i cittadini collaborino con le forze dell’ordine anche quando è pericoloso farlo, cosa che richiede la virtù del coraggio.

Anche se fosse possibile individuare le azioni giuste solo grazie alle norme e senza mai aver bisogno delle virtù, resterebbe comunque vero che chi si conforma ad una moralità per dovere, chi agisce a colpi di senso del dovere, è sempre esposto alla tentazione di compiere il male, mentre il virtuoso, che ha consolidato delle virtù, riesce più facilmente ad evitarlo: grazie alle virtù, l’atto virtuoso diviene (progressivamente) per il soggetto che lo esplica (sempre più) connaturale ed amabile come se lo esplicasse per natura. Questo è chiaro anche ad alcuni deontologi e consequenzialisti, che assegnano alla virtù il compito di facilitare il rispetto delle norme-regole (un compito che, però, non esaurisce la loro funzione)

Inoltre, il virtuoso considera la norma in modo diverso dal non virtuoso: per il non virtuoso essa (eccetto i casi dei soggetti che seguono le etiche dell’autolegislazione della ragione) è qualcosa di eteronomo che gli si impone, perciò il dovere è da lui sentito come restrittivo della libertà ed egli si limiterà probabilmente a fare il minimo indispensabile per non disattenderelo; per il virtuoso, invece, la norma è in sinergia con i suoi interessi virtuosi, è in sintonia col suo desiderio di essere virtuoso, è la via per conseguire il bene che ama. Infatti, per lui, il dovere si deduce dal bene e riceve il suo senso dal bene che esso è chiamato a tutelare, ovvero è il correlato di un valore che ne costituisce il fine e lo scopo.

Talvolta, un’azione diventa talmente connaturale per il virtuoso che egli finisce per percepire come normali alcuni atti che, in se stessi, sono invece supererogatori o comunque eccellenti.

Non solo, ma il virtuoso riconosce per sé l’esistenza di doveri che non ritiene tali per gli altri.
Come dice Aristotele, dove ci sono le (vere) virtù c’è anche il rispetto delle giuste regole (purché sia un rispetto sensato e non contro lo spirito e lo scopo della legge stessa, come è capace di stabilire la virtù dell’epicheia illuminata dalla phronesis).

Inoltre, l’agire giusto talvolta non ricade sotto alcuna norma, bensì solo nella sfera della virtù, cioè l’ambito dell’etica è più ampio di quello delle azioni prescritte dalle norme. Infatti, esistono atti moralmente buoni che tuttavia non sono doverosi. Per esempio, non è moralmente obbligatorio essere affabili o aiutare qualcuno quando c’è già un alto numero di persone che lo sta facendo.
Tra gli atti moralmente buoni ma non doverosi, rientrano poi anche quelli eroici, cioè supererogatori (come dare la vita per gli altri). Robert Adams dice giustamente che neanche la santità richiede di agire indefessamente come Sisifo sotto la continua pressione di pesanti doveri: anche i santi «dedicano del tempo a cose che non hanno il dovere di fare […] e non devono generalmente fare ogni azione nel miglior modo possibile», cosicché «la santità non è perfezionismo».

Del resto, è vero che l’agire virtuoso del politico non è immediata emanazione delle sue virtù individuali ed egli deve seguire anche alcune regole e procedure, ma «L’etica pubblica è […] prima di tutto etica delle persone giuste o non giuste; in secondo luogo è anche etica delle procedure e delle istituzioni giuste o non giuste» (A. Da Re).

D’altra parte, già si comprende il ruolo pubblico delle virtù del singolo se si considera che l’azione umana ha un risvolto pubblico quando influisce sugli altri: anzi ogni azione umana (in forza della dimensione intransitiva dell’agire umano) può avere un minimo o cospicuo effetto pubblico.

Detto questo, però, come affermano giustamente anche alcuni autori della Virtue Ethics, negare il primato delle norme non vuol dire rifiutare la loro utilità. Piuttosto è auspicabile realizzare un’integrazione tra virtù e regole: l’agire virtuoso richiede appunto virtù, uomini virtuosi da imitare-consultare ed obbedienza a regole.

È poi ovvio che le virtù sono necessarie sotto istituzioni e regimi ingiusti, quando le regole sono inique, in particolare sotto i totalitarismi.
In primo luogo, come risorsa per resistere: per fare solo un esempio, Solzenicyn e gli altri dissidenti fecero del «vivere senza menzogna» la loro bandiera, per non cadere nella perversa logica del totalitarismo comunista.
In secondo luogo, perché in tali situazioni anche pochi atti di solidarietà possono avere un effetto cumulativo ed innescare grandi cambiamenti. Le virtù, insomma, rientrano nella categoria del «potere dei senza potere», per dirla con Vaclav Havel.

Ha poi ragione Onora O’Neill quando dice che le persone che compongono il tessuto sociale, che è ciò su cui le istituzioni si innestano, devono essere protette non solo dai danni diretti (a ciò provvedono le istituzioni stesse con le leggi), ma anche dall’indifferenza: il tessuto sociale deve essere sempre rigenerato ed irrorato dalle virtù, le quali promuovono la fiducia, la collaborazione, la lealtà, il coinvolgimento, la tolleranza, ecc.

Oltre a ciò, anche se le istituzioni non avessero bisogno di questo sostegno da parte delle virtù, resterebbe pur sempre vero che le istituzioni non possono venir incontro a tutte le forme della vulnerabilità e della finitezza dell’uomo, che solo le virtù della sollecitudine sono in grado di mitigare. «L’amore […] sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. […] ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre ci saranno anche situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per il prossimo. Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un’istanza burocratica che non può assicurare l’essenziale di cui l’uomo sofferente – ogni uomo – ha bisogno: l’amorevole dedizione personale» (Benedetto XVI, Deus Charitas est, § 28).

Infine, con buona pace di Mandeville, le virtù favoriscono anche l’economia: «Gli sviluppi recenti della teoria economica convalidati da esperimenti di laboratorio e le vicende della crisi finanziaria globale ci dicono che la situazione è cambiata: è indubitabile che l’autointeresse resti sempre una molla fondamentale per il progresso economico ma i vizi possono distruggere l’intera economia mentre alcuni valori fondamentali (fiducia interpersonale e nelle istituzioni) sono in realtà l’architrave del sistema di mercato e altre virtù (gratuità, dono, qualità delle relazioni) sono input fondamentali della fertilità economica» (Becchetti).
Di sicuro, i vizi danneggiano l’economia (almeno alcune volte): sono state anche la disonestà e l’avidità a determinare i tracolli di aziende (come Parmalat, Enron, Lehman Brothers, ecc.), che hanno in certi casi innescato crolli delle borse, con conseguenze, a volte, di portata mondiale. La crisi finanziaria mondiale, come molti hanno riconosciuto, è stata determinata anche da un grave deficit morale dei protagonisti dell’economia.

(Le seguenti riflessioni sono tratta da G. Samek Lodovici, L’emozione del bene. Alcune idee sulla virtù, Vita e Pensiero, in corso di pubblicazione. A questo testo si rinvia per chiarimenti ed approfondimenti)

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