lunedì 15 agosto 2011

Le libertà solidali nel nostro tempo

di Giuseppe Amari

Il sistema in cui viviamo
È nota la denuncia di Keynes che il capitalismo, o meglio il “sistema in cui viviamo” – un termine da lui preferito per non entrare in difficili definizioni di un sistema economico così in rapida evoluzione –, fallisce nell’assicurare la piena occupazione e nell’evitare una distribuzione iniqua ed arbitraria del reddito e della ricchezza. Un sistema intrinsecamente instabile e spesso ristagnante in “equilibrio di sottoccupazione” (Roncaglia). Di qui la necessità di attuare politiche economiche e sociali anticongiunturali, di sviluppo e politiche attive per la piena occupazione. In particolare prevedeva una parziale socializzazione degli investimenti che era la componente più instabile della domanda aggregata, dipendendo dalle incerte aspettative degli imprenditori. Incertezza che, a differenza del rischio, non è trattabile con gli strumenti probabilistici, e che è stata considerata il suo contributo forse più originale. A livello internazionale, si batté per una vera collaborazione tra paesi, nel commercio, nei movimenti di capitale e nei cambi, collaborando alla fondazione degli organismi internazionali come il FMI e la Banca mondiale che poi nel tempo, purtroppo, deviarono dai loro originari compiti diventando strumento degli interessi della potenza economica egemone.

Accadde in Italia
In Italia, la preminenza di economisti liberali e soprattutto l’estromissione, avvenuta presto e per cause nazionali e soprattutto internazionali, delle sinistre dal governo del Paese insieme all’isolamento dei cattolici più progressisti, impedì che la Ricostruzione avvenisse secondo l’ispirazione keynesiana, allora prevalente in Europa e in America. Disattesi, furono anche gli stessi orientamenti espressi dalla Commissione economica per la Costituente, di cui non si volle il proseguimento dei lavori come organo tecnico a supporto dell’opera ricostruttiva.

Globalizzazione e riformismo
Gli ultimi decenni, infine, hanno visto una forte accentuazione neoliberista spinta della globalizzazione, di “questa” globalizzazione. Globalizzazione che ha cooptato in larga parte anche i partiti progressisti.
Sul piano culturale, innanzitutto, con la cosiddetta “terza via”, abbandonata poi, dopo la recente crisi e con “insostenibile leggerezza”, dal suo ideatore Anthony Giddens e di cui si parla dopo. Tanto più ingiustificabile in Italia che ha avuto ben più consistenti tradizioni culturali, come quelle del liberalsocialismo di Guido Calogero e Norberto Bobbio. Che è poi il riferimento della più recente filosofia delle “capabilities” di A. K. Sen e di Martha Nussbaum.

Per una riconquistata socialità
È emersa, ancora una volta, l’inadeguatezza dell’Europa di fronte a tali cambiamenti epocali e che stenta a trovare una comune ragione popolare. Più che di una migliore “governance” avrebbe bisogno di un nuovo spirito costituente che affrontasse le fratture sociali e un mercato del lavoro in cui cresce la disoccupazione permanente e le cui condizioni del lavoro tendono sempre di più a quelle del vecchio bracciantato. Anche riguadagnando la lezione dei primi due premi Nobel, J. Tinbergen e di R. Frisch che, in un quadro di programmazione democratica, dimostrarono la necessità di disporre di più strumenti per raggiungere più obiettivi. Pena la riduzione degli obiettivi, magari al solo contenimento dell’inflazione, o cadere nella critica di N. Kaldor, qualora si pretenda di raggiungere più obiettivi con troppo pochi strumenti, magari solo con quello monetario.

L’economia civile
Nell’attuale contesto e alla luce delle considerazioni fatte sembra di poter dire che si senta la necessità di riguadagnare spazio (e onore) all’intervento e al lavoro pubblico (dopo la “privatizzazione del mondo” alla quale si possono ben fare risalire molte delle cause della maggiore instabilità e della recente crisi) e di darne uno ancora maggiore all’economia sociale, cooperativa e al volontariato, in uno con la crescita della società civile. Con una visione però che non veda lo Stato in veste “residuale” come l’intende la concezione prevalente, ma a nostro avviso errato, della sussidiarietà “verticale”. Allo Stato democratico e alle sue istituzioni locali spetta la responsabilità principale di garantire alcuni servizi ritenuti essenziali per la comunità intera come la sanità, l’istruzione, la previdenza, il governo del territorio, la cui gestione non si presta alla logica capitalistica del massimo profitto.

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