sabato 15 ottobre 2011

L'universalismo di Dante
nella formazione dell'identità europea

di Alessandro Ghisalberti
Ordinario di Filosofia teoretica e Direttore della “Rivista di Filosofia Neoscolastica” dell'Università Cattolica di Milano

Articolo su Dante e l’Europa, pubblicato nei Quaderno n. 5 dell’ASSBB, “Alla ricerca delle radici della nostra cultura”, maggio 2011.

"È una lettura un po' nuova di un tema attualissimo!"

Parlare di Europa ai tempi di Dante significa assumere una consapevolezza preliminare, dovuta anche quando si parla di Italia nell’età di Dante, ossia si deve essere consapevoli del rischio di caricare i due termini, Europa e Italia, di una valenza geopolitica che in quel tempo non possedevano; eppure Dante è certamente tra i formatori dei valori che nel tempo l’Europa delle nazioni farà propri, così come fondamentale è stato il contributo del poeta fiorentino nel corso dei cinque secoli successivi alla sua morte alla formazione dello stato italiano unitario, della cui nascita ricorre quest’anno il 150° anniversario. In particolare la lingua toscana e la poesia di Dante sono stati riferimenti decisivi nei secoli a forgiare la storia della letteratura e cultura d’Italia, anche quando l’Italia unita non c’era ancora, ma si parlava l’italiano e nel mondo si diffondevano l’arte, la musica, i costumi italiani.
Senza cadere in antistorici anacronismi, intendiamo ripercorre un itinerario non alla ricerca di un precursore, ma meglio si direbbe di un “formatore”, volto cioè a far emergere elementi forti calati nel pensiero e nelle azioni di Dante veicolanti la coscienza di una comune patria ideale transnazionale.

1. Dante, Firenze e l’Europa
Firenze è pertanto il simbolo stesso della civitas, dei valori che devono appartenere a qualunque città dell’Europa cristiana, e, secondando l’impegno dell’autore della Monarchia, di ogni cittadino, di ogni persona in cui è attivo l’intelletto possibile. E ciò nonostante l’amata lingua volgare fiorentina, che, nella percezione lungimirante che Dante mostra di avere circa la variazione delle lingue nel corso della storia, lungi dall’ostacolare, consente alla patria universale di accogliere al suo interno la pluralità linguistica e le identità storiche particolari. Ricordiamo che al tempo di Dante la lingua comune delle istituzioni e degli intellettuali restava il latino, lingua in cui egli stesso scrisse significativamente, ma in un certo senso anche contraddittoriamente, un trattato a difesa del volgare nobile (De vulgari eloquentia).

2. Romanesimo e cristianesimo nelle opere di Dante
È nota la dichiarazione che Dante fa all’inizio del secondo libro della Monarchia, a proposito dell’avvenuto cambiamento circa una valutazione politica: un tempo si era convinto che il popolo romano avesse conquistato il mondo con la forza delle armi, mentre in seguito cambiò opinione, perché capì che tutto era avvenuto per un preciso disegno della Provvidenza.
Con una vertiginosa sintesi Dante parla di Roma celeste, di Roma come Paradiso, così come tante volte nella letteratura patristico–cristiana si era parlato di Gerusalemme, della “Gerusalemme celeste” come del Paradiso. Nel canto XXXII del Purgatorio per tutti i giusti Dante preconizza una cittadinanza in Roma–Paradiso, alla consumazione di tempi:
“Qui sarai tu poco tempo silvano;
e sarai meco sanza fine cive
di quella Roma onde Cristo è romano”.
Nella parte finale del trattato sulla Monarchia, Dante osserva che l’uomo, essendo provvisto di una duplice natura, fisica e spirituale, ha pure un duplice fine da realizzare, ossia la felicità terrena e la felicità eterna. L’autonomia del potere temporale da quello spirituale non toglie che sia necessario un coordinamento: l’imperatore deve usare verso il pontefice quella riverenza che il figlio primogenito deve al padre, e ciò in virtù del fatto che la felicità terrena è per molti aspetti ordinata al conseguimento di quella eterna . Viene così ribadita la gerarchia medievale dei fini, non per una comoda correzione di rotta, quasi a voler rimediare l’eccessiva divaricazione proiettata verso il dualismo, bensì per sollecitare una modalità giusta di intendere sul piano operativo le conclusioni raggiunte a livello speculativo.

3. Dante traccia i confini ideali dell’Europa
Ricordavamo prima che, nell’epistola VII, Dante scrive ad Arrigo VII “che il glorioso potere dei Romani né da limiti dell’Italia né dal termine della tricorne Europa è ristretto”: tricorne, ossia approssimativamente triangolare, dalla linea del Don alle colonne d’Ercole, alle isole britanniche.
Il termine orientale dell’Europa è costituito dai monti della Troade (“lo stremo d’Europa”), da cui mosse l’aquila imperiale, seguendo il viaggio di Enea, che da Ilio approdò ai lidi del Lazio; l’occidente è dato dalle coste atlantiche della Castiglia, in cui si situa Calaruega, la città natale di San Domenico:
In quella parte ove surge ad aprire
Zefiro dolce le novelle fronde
di che si vede Europa rivestire” (Pd XII, 56-48)
La Spagna è l’Occidente dell’Europa, dove il dolce vento di ponente, Zefiro, soffia nella stagione primaverile, quando gli alberi mettono le fronde. Ma le coordinate geografiche acquistano un forte significato simbolico, quello per cui Francesco nascendo ad Assisi, e sorgendo come un sole splendente, fa sì che “chi d’esso loco fa parole/ non dica Ascesi, che direbbe corto/ ma Oriente, se proprio dir vuole” (Pd XI, 52-54). E Calaruega, la città di Domenico, non lontana dal golfo di Guascogna, aperto sull’oceano Atlantico, situa l’Occidente “non molto lungi al percuoter de l’onde/ dietro a le quali, per la lunga foga,/ lo sol tal volta ad ogni uom si nasconde” (Pd XII, 49-51). E’ passato quasi un secolo rispetto agli anni della stesura del poema, da quando la geografia d’Europa è stata rinnovata nei suoi confini simbolici da due grandi campioni dello Spirito: dall’Oriente di Francesco, tutto serafico nell’ardore della carità, e dall’Occidente di Domenico, maestro di sana dottrina, che “in picciol tempo gran dottor si feo” (Pd XII, 85). In questa Europa contrassegnata da confini simbolici, ma suscitati dalla carica dello Spirito, costruiscono la propria cittadinanza civile e religiosa gli uomini e le donne del secolo di Dante.

Un bilancio del percorso che abbiamo sviluppato, con l’intenzione di volere essere il più possibile fedele e corretto interprete del pensiero di Dante circa il tema dell’Europa, ci fa constatare come Dante sia un autore estremamente difficile, a causa della straordinaria ricchezza ed insieme della enorme complessità delle sue opere. Gettando uno sguardo a ritroso su ciò che abbiamo fatto emergere, si nota subito come tutti i problemi che abbiamo enucleato contengano una forte marcatura autobiografica, un intreccio forte tra biografia e opera. La sua esaltazione dei valori universali di un Impero che storicamente aveva perso molto terreno, la celebrazione della missione di Firenze, che nel presente storico era invece segnata da grandi corruzioni, la difesa dei valori nobili della tradizione in un momento in cui dominavano i mercanti, i banchieri, i costumi immorali su ogni fronte, ci fanno cogliere un Dante carico di una dimensione profetica, nel senso di un portatore di valori straordinari, superiori alla percezione ordinaria, della diffusione dei quali egli si sente investito in seguito a una visione, a un mandato dall’alto, lo stesso che l’ha autorizzato a compiere l’audace viaggio nei tre regni ultraterreni nella Commedia. Nel caso del pensiero politico universalistico, transnazionale, Dante appare quasi “profeta di sé stesso”, ossia autorizzato a ciò dalla propria storia famigliare (vedi i Canti di Cacciaguida), dalla personale vicenda di esule per troppo amore degli ideali puri della politica, dall’autopercezione delle proprie capacità intellettuali che lo fanno sentire un diverso, con una marca di eccezionalità che lo inquieta ed insieme lo carica di responsabilità.
Può, questo percorso dantesco, essere di aiuto nel ripensare l’unità europea di oggi? Certamente, se fissiamo lo sguardo sulla sua visione delle radici comuni della civiltà europea, che affondano nell’Europa medievale. Ricordiamo che la novità di questa, la destinale sintesi di romanesimo e cristianesimo, aveva comportato un cambiamento nella geografia, che era cambiata rispetto a quella dell’impero romano, il quale comprendeva il Nord Africa e grosse porzioni di Asia, dunque non era l’Europa. L’importante sono le affinità che accomunano le nazioni europee, quelle che ancora oggi uniscono gli spiriti nella tensione verso valori ideali condivisi (libertà, giustizia, solidarietà) dalla umanità europea, più di quanto non li separino i confini nazionali, le identità linguistiche o i particolarismi geopolitici.
All’Europa delle nazioni affiancherei un valore aggiuntivo, quello dell’Europa dello Spirito, termine con cui esprimerei le coordinate identitarie, identificative dell’appartenenza all’Europa, o anche quella che si potrebbe dire l’anima dell’Europa. Dante ha abitato tre luoghi: Firenze, le città d’Italia che lo hanno ospitato esule, l’universalismo europeo inteso come l’Impero, che abitò con indomita tensione ideale. Ecco i tre luoghi dell’Europa di Dante, cui appartenne senza essere proprietà esclusiva di nessuno, perché egli fu un europeo che ha abitato quella terra che è la vita interiore, quella dimensione vitale che chiamiamo anima, che fa pulsare fortemente, accanto alla vita del corpo, la vita dell’uomo interiore, la vita dello Spirito, fonte della comunione tra i popoli e capace di suscitare identità forti e durature.

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